Questo articolo è originariamente apparso su Serialmente il 7 Aprile 2013.
MORMORARE LA SINFONIA DELLA VITA
Undici piccoli saggi ispirati a Mad Men
di Dave Algonquin
1. Fare surf sull'oceano dell'identità
Green Burning Car I, 1963 |
Burning Car I e Signal 30 sono sorprendentemente simili e non potrebbero essere più diversi. Burning Car I, in perfetto stile Warhol, è una ripetizione della stessa fotografia, in questo caso assemblata con una certa, cinematica drammaticità anche se, come sempre accade in Warhol, il risultato immediato di fronte all’opera è piuttosto di distacco che di empatico rapimento. Sulla destra c’è un’auto ribaltata e in fiamme, sulla sinistra ci sono un uomo “impalato” e un passante che si allontana come se, apparentemente, non fosse accaduto nulla. Come notano Foster, Krauss, Bois e Buchloch (Art Since 1900) la ripetizione in Warhol serve a nascondere una realtà traumatica ma in maniera tale da indicare quella realtà attraverso una spaccatura nell’immagine. Quella spaccatura è ciò che Barthes (che pur parla della fotografia pura) chiama punctum, “l’elemento [personale] che emerge da una scena [fotografica], lanciato come una freccia, e ci perfora” (La chambre claire).
Per Foster & Co., nell’opera di Warhol il punctum è il passante che seguita ad emergere dall’immagine con l’inquietudine dei flash serigrafici, per me potrebbe essere lo spazio vuoto in basso a destra, lo spazio che la foto non occupa occupandolo, uno spazio forse insufficiente per un’altra ripetizione, forse un’allusione alla presenza della “tela” nella foto, dell’autore nell’opera o forse, più romanticamente, l’intercapedine fra la chiusura e l’apertura dell’otturatore. Comunque sia, quello è il mio punctum, il punto di rottura che mi avvicina all’immagine nella maniera più sicura possibile, cioè allontanandomi.
Anche Signal 30 (che dà il titolo al quinto episodio della quinta stagione di Mad Men) è un’opera che gioca sulla ripetizione, non dello stesso incidente ma di svariati, con l’intenzione però di creare un effetto panico riducendo tutti gli incidenti a un unicoincidente, riducendo cioè tutti a significanti a un unico significato, ovvero che noi (Signal 30 si rivolge direttamente al “tu” che guarda) potremmo essere vittime e al contempo carnefici di quella strage di massa che sono gli incidenti stradali. La cosa interessante è che a differenza di Burning Car I, Signal 30 non ha un punctum ma offre (con una certa ipocrisia, vista la spudorata drammatizzazione del video) immagini di quello che potremmo chiamare un crudo oggetto reale, nel quale la ricerca di un punto di rottura è vana.
Ora, Burning Car I non riproduce (e ripete) soltanto un effetto traumatico ma ne produce uno nuovo. Come ho già detto, ci avvicina allontanandoci, funziona cioè come un meccanismo di difesa che ci mette in contatto con l’evento traumatico separandoci al contempo da esso e al contempo fa anche un’altra cosa: ci allontana avvicinandoci. In altre parole, crea un nuovo evento traumatico di fronte al quale sentiamo la necessità di prendere le distanze.
Per Foster & Co., nell’opera di Warhol il punctum è il passante che seguita ad emergere dall’immagine con l’inquietudine dei flash serigrafici, per me potrebbe essere lo spazio vuoto in basso a destra, lo spazio che la foto non occupa occupandolo, uno spazio forse insufficiente per un’altra ripetizione, forse un’allusione alla presenza della “tela” nella foto, dell’autore nell’opera o forse, più romanticamente, l’intercapedine fra la chiusura e l’apertura dell’otturatore. Comunque sia, quello è il mio punctum, il punto di rottura che mi avvicina all’immagine nella maniera più sicura possibile, cioè allontanandomi.
Anche Signal 30 (che dà il titolo al quinto episodio della quinta stagione di Mad Men) è un’opera che gioca sulla ripetizione, non dello stesso incidente ma di svariati, con l’intenzione però di creare un effetto panico riducendo tutti gli incidenti a un unicoincidente, riducendo cioè tutti a significanti a un unico significato, ovvero che noi (Signal 30 si rivolge direttamente al “tu” che guarda) potremmo essere vittime e al contempo carnefici di quella strage di massa che sono gli incidenti stradali. La cosa interessante è che a differenza di Burning Car I, Signal 30 non ha un punctum ma offre (con una certa ipocrisia, vista la spudorata drammatizzazione del video) immagini di quello che potremmo chiamare un crudo oggetto reale, nel quale la ricerca di un punto di rottura è vana.
Ora, Burning Car I non riproduce (e ripete) soltanto un effetto traumatico ma ne produce uno nuovo. Come ho già detto, ci avvicina allontanandoci, funziona cioè come un meccanismo di difesa che ci mette in contatto con l’evento traumatico separandoci al contempo da esso e al contempo fa anche un’altra cosa: ci allontana avvicinandoci. In altre parole, crea un nuovo evento traumatico di fronte al quale sentiamo la necessità di prendere le distanze.
Thirteen Most Wanted Men, 1964 |
Come notano Foster & Co., Warhol crea una sorta di punctum comune che rompe l’equilibrio fra pubblico e privato, fra una soggettività di massa e una soggettività individuale. Quasi tutta l’opera di Warhol, se volete, è finalizzata a questa rottura attraverso la rappresentazione di oggetti di consumo, di figure famose (come le Marilyn e le Jackie Kennedy) o anonime come le vittime di Death and Disaster (che rientrano nella soggettività di massa originata dallo spettacolo televisivo o giornalistico). In questo modo, Warhol compie la missione della Pop Art che una volta definì esotericamente come “il portare dentro ciò che c’è fuori e il portare fuori ciò che c’è dentro”: mette in contatto la soggettività individuale con quella di massa mostrando l’uniformità, l’omologazione e, se pensate a Thirteen Most Wanted Men (una serie di serigrafie sui serial killer, sorta di icone americane) e alla serie delle sedie elettriche (sorta di pubbliche crocifissioni), lo fa anche rivelando la natura mortuaria e patologica della dimensione pubblica.
In quella dimensione, gli individui che non anelano a quindici minuti di notorietà, cercano — come ho fatto prima io cercando di scegliere un altro punctum nel quadro di Warhol — di aggrapparsi all’identità o soggettività individuale. Tuttavia la soggettività dei personaggi di Mad Men è, come direbbe il primo Jacques Lacan non un punto d’arrivo (biologico o ontologico) ma un processo storico aperto sull’avvenire fatto di trasformazioni, produzioni e riproduzioni o, come nel caso di ciò che dice Don in taxi a Pete a proposito di Betty e Megan ("Look… I am who I am and I have been where I have been and you don’t get another chance at what you have") risignificazioni retroattive del senso (cioè connessioni con ciò che non è ancora accaduto, col nostro futuro anteriore). È come dire che noi siamo stati sempre ciò che saremo perché continuiamo a divenire, perché facciamo surf sull’oceano dell’identità e quando un’onda si esaurisce abbiamo la necessità e siamo disponibili (e talvolta pronti) a prenderne un’altra.
2. Il nome del nostro nome
Durante la cena dai “Campbells” cui assistiamo in Signal 30, ci sono due momenti superbi, uno dadaista e l’altro, per così dire, postmoderno. Il primo riguarda il nome della moglie di Ken Cosgrove che né Don né Megan ricordano e che improvvisamente cade come una sorpresa nella conversazione, il secondo il nome di Charles Whitmore, o meglio, Whitman come Don fa notare a Cynthia (la signora Cosgrove), uno studente ex marine che, nell’Agosto del 1966, dopo aver assassinato la moglie e la madre, uccise 16 persone e ne ferì 32 sparando dal palazzo amministrativo dell’Università di Austin.
Whitman è anche il vero nome di Don Draper, Richard “Dick” Whitman, un nome nel quale risuonano sia quello del serial killer di Austin sia quello del creatore di Signal 30 sia quello di Richard “Dick” Speck, il serial killer di cui si parla nell’episodio precedente (Mistery Date) e le cui orrorifiche gesta (l’omicidio di otto infermiere in un dormitorio di Chicago) hanno ispirato una famosa opera di Gerard Richter, Eight Student Nurses.
Eight Student Nurses, 1966 |
Impegnato in una riflessione sulla falsa immediatezza della fotografia, sulla ritirata della pittura contemporanea dalla storia e sulla possibilità stessa di una pittura (dopo Duchamp), Richter aveva cominciato a “collezionare” fotografie d’epoca e dell’epoca fin dall’inizio degli anni ’60 e da quelle, spesso amatoriali, aveva ricavato i suoi primi dipinti. Senza dubbio influenzato da Warhol (Eight Student Nurses sono in parte una risposta a Thirteen Most Wanted Men) ma anche lanciato sulla via di personali epifanie, Richter abbandona pian piano l’euforica illusione di un’assoluta libertà pittorica (copiare casuali fotografie lo rendeva indipendente dalla scelta di un soggetto, dalle regole di composizione, dal colore, ecc.) e si ricongiunge, almeno concettualmente, alla storicità del mondo.
Con ogni probabilità, Eight Student Nurses è il risultato di un impasse etico che Richter incontrò quando, in fase di accumulazione fotografica (il suo archivio diverrà il progetto artistico conosciuto come Atlas), si pose la questione se replicare o meno le fotografie dei campi di concentramento, decidendo di no. Cosa avrà pensato in quel momento? (E cosa avranno pensato i dirigenti del Times di fronte alle foto dell’omicidio di massa di Peck "not suitable for publication" che Joyce, l’amica di Peggy, porta alla SCDP in Mistery Date?)
Probabilmente Richter pensò di aver toccato il confine dell’irrapresentabilità, pensò che se avesse osato dipingere quelle fotografie in fondo cariche di necessità storica, se le avesse usate come le altre (cioè come ready-made da copiare), dipingendole le avrebbe rigettate nel caso e nella contingenza tradendone l’inenarrabile realtà. Forse pensò che fosse giusto che quelle fotografie rimanessero nell’irrealtà della fotografia e non venissero mai tradotte nella realtà della pittura.
E così decise di dipingere le otto infermiere assassinate da Richard Speck (in bianco e nero come tutte le vittime che abbia mai dipinto), Eight Student Nurses appunto, un’opera che allude all’indistinzione, all’uniformità, all’omologazione e al potere maschile (non solo alla violenza di Peck ma anche all’assente maschio in camice da cui certamente dipendevano le donne). A differenza di Warhol, che nell’ironico titolo lascia almeno una traccia di fraintendimento, Richter (ribaltando Magritte) chiama l’oggetto col suo semplice nome come se il tempo potesse (ma non potrà) cancellare il contesto di quei ritratti, lasciando alle generazioni future solo la memoria dell’esistenza di otto semplici infermiere ma non quella della loro fine.
Nel suo atto di rimozione del carnefice e dell’atto del carnefice, l’opera di Richter è persino più possente di quella di Warhol (che, nel caso di Thirteen Most Wanted Men rimuove le vittime). Di fatto, Eight Student Nurses è una complessa serie di soglie (anche pittoriche) fra la fantasia e la realtà, fra il desiderio oscuro di essere vittime e l’inenarrabile realtà del diventarlo.
Ciò che Richter e Warhol sanno è cioè che se ci avviciniamo troppo alle nostre fantasie traducendole in realtà siamo forse destinati a disintegrarci.
È a questo che servono i nomi? Ad allontanarci da ciò che siamo? A tenerci a distanza dai nostri più profondi (e fondati) desideri? A tenere a distanza gli altri?
Il più grande saggio contemporaneo di omonimia è probabilmente Underworld di Don DeLillo, nel quale due personaggi, Edgar J. Hoover e Suor Edgar, condividono l’ossessione ontologica della contaminazione. Tuttavia l’omonimia (così come l’assonanza, la consonanza o l’onomatopeia) è già di per sé una forma di contaminazione (al limite letteraria) che ci rende partecipi dell’alterità di tutti quelli che portano il nostro stesso nome.
Nessun nome è completamente innocente e nessun nome è un’isola. Ogni nome contiene le speranze o le credenze o semplicemente il sentimento di chi ce lo ha dato, e ogni nome contiene la possibilità orrorifica (o seducente) di essere ignorati da chi non lo ricorda o di essere scambiati con chi porta lo stesso nome. E allora, cosa condividiamo, a parte il nome, con chi porta lo stesso nome?
Forse tutto, forse niente. In fondo il nome è un gemello del corpo, uno strano fratello che ci segue ovunque e che pretende di essere noi mentre noi pensiamo di essere altro (o pensiamo di essere proprio quel nome). È il nome che ci danno, è un modo di chiamarsi in quanto qualcuno ci chiama, un richiamo appunto, il semplice nominare in quanto indicare. È il nome che proviene dal padre e dalla madre, il nome che discende dal padre (o dalla madre), il nome che abbiamo in quanto ci ha contagiato, il ge-nome, il nome che invariabilmente ci precede. È anche un gioco, forse solo poetico, un gioco dei nomi nel quale la nostra immagine si può moltiplicare e la nostra identità frammentarsi come accade a Don Draper.
Dick Whitman ha cambiato nome ma nessun nome realmente ci abbandona ("I am who I am, I have been where I have been") e perciò è naturale chiedersi: chi è veramente Dick Whitman? E cosa condivide, oltre al nome, con Charles Whitman o Richard “Dick” Speck o Dick Wayman?
Nell’acchito di Underworld, Edgar J. Hoover insegue due pagine di giornale fra le migliaia gettate dagli spalti durante una partita di baseball. Quelle due pagine contengono una riproduzione del Trionfo della morte di Pieter Bruegel che, per Hoover, rappresenta la visione profetica degli effetti di un’imminente guerra atomica. L’irresistibile attrazione per la morte dello Hoover di DeLillo è analoga a quella che deve aver provato Dick Wayman mentre produceva i suoi video di educazione stradale dai titoli geniali e grotteschi come Mechanized Death o Highway of Agony. Forse Wayman, come il Dr. Vaughn in Crash di Ballard, sperava di produrre non una nuova sessualità ma una nuova coscienza “nata da una perversa tecnologia”, forse le sue intenzioni, nonostante la violenta pornografia dei suoi film, erano buone. Come buone sono, erano le intenzioni di Don “Dick” Draper nei confronti, beh, di chiunque ma in particolare di Adam Whitman, il fratellastro che si è impiccato nel corso della prima stagione, e nei confronti del compianto Lane Pryce che ha fatto la stessa fine.
Due “istigazioni” al suicidio non fanno di Don un omicida, naturalmente, né una vaga omonimia basta a farlo entrare nel club dei serial killer. Ma cosa vede Don quando si guarda allo specchio? La vede la macchina bruciante che egli stesso è? Qual’è il suo punctum? Non potrebbe essere Mad Men la storia di un incidente visto al rallentatore?
Con ogni probabilità, Eight Student Nurses è il risultato di un impasse etico che Richter incontrò quando, in fase di accumulazione fotografica (il suo archivio diverrà il progetto artistico conosciuto come Atlas), si pose la questione se replicare o meno le fotografie dei campi di concentramento, decidendo di no. Cosa avrà pensato in quel momento? (E cosa avranno pensato i dirigenti del Times di fronte alle foto dell’omicidio di massa di Peck "not suitable for publication" che Joyce, l’amica di Peggy, porta alla SCDP in Mistery Date?)
Probabilmente Richter pensò di aver toccato il confine dell’irrapresentabilità, pensò che se avesse osato dipingere quelle fotografie in fondo cariche di necessità storica, se le avesse usate come le altre (cioè come ready-made da copiare), dipingendole le avrebbe rigettate nel caso e nella contingenza tradendone l’inenarrabile realtà. Forse pensò che fosse giusto che quelle fotografie rimanessero nell’irrealtà della fotografia e non venissero mai tradotte nella realtà della pittura.
E così decise di dipingere le otto infermiere assassinate da Richard Speck (in bianco e nero come tutte le vittime che abbia mai dipinto), Eight Student Nurses appunto, un’opera che allude all’indistinzione, all’uniformità, all’omologazione e al potere maschile (non solo alla violenza di Peck ma anche all’assente maschio in camice da cui certamente dipendevano le donne). A differenza di Warhol, che nell’ironico titolo lascia almeno una traccia di fraintendimento, Richter (ribaltando Magritte) chiama l’oggetto col suo semplice nome come se il tempo potesse (ma non potrà) cancellare il contesto di quei ritratti, lasciando alle generazioni future solo la memoria dell’esistenza di otto semplici infermiere ma non quella della loro fine.
Nel suo atto di rimozione del carnefice e dell’atto del carnefice, l’opera di Richter è persino più possente di quella di Warhol (che, nel caso di Thirteen Most Wanted Men rimuove le vittime). Di fatto, Eight Student Nurses è una complessa serie di soglie (anche pittoriche) fra la fantasia e la realtà, fra il desiderio oscuro di essere vittime e l’inenarrabile realtà del diventarlo.
Ciò che Richter e Warhol sanno è cioè che se ci avviciniamo troppo alle nostre fantasie traducendole in realtà siamo forse destinati a disintegrarci.
È a questo che servono i nomi? Ad allontanarci da ciò che siamo? A tenerci a distanza dai nostri più profondi (e fondati) desideri? A tenere a distanza gli altri?
Il più grande saggio contemporaneo di omonimia è probabilmente Underworld di Don DeLillo, nel quale due personaggi, Edgar J. Hoover e Suor Edgar, condividono l’ossessione ontologica della contaminazione. Tuttavia l’omonimia (così come l’assonanza, la consonanza o l’onomatopeia) è già di per sé una forma di contaminazione (al limite letteraria) che ci rende partecipi dell’alterità di tutti quelli che portano il nostro stesso nome.
Nessun nome è completamente innocente e nessun nome è un’isola. Ogni nome contiene le speranze o le credenze o semplicemente il sentimento di chi ce lo ha dato, e ogni nome contiene la possibilità orrorifica (o seducente) di essere ignorati da chi non lo ricorda o di essere scambiati con chi porta lo stesso nome. E allora, cosa condividiamo, a parte il nome, con chi porta lo stesso nome?
Forse tutto, forse niente. In fondo il nome è un gemello del corpo, uno strano fratello che ci segue ovunque e che pretende di essere noi mentre noi pensiamo di essere altro (o pensiamo di essere proprio quel nome). È il nome che ci danno, è un modo di chiamarsi in quanto qualcuno ci chiama, un richiamo appunto, il semplice nominare in quanto indicare. È il nome che proviene dal padre e dalla madre, il nome che discende dal padre (o dalla madre), il nome che abbiamo in quanto ci ha contagiato, il ge-nome, il nome che invariabilmente ci precede. È anche un gioco, forse solo poetico, un gioco dei nomi nel quale la nostra immagine si può moltiplicare e la nostra identità frammentarsi come accade a Don Draper.
Dick Whitman ha cambiato nome ma nessun nome realmente ci abbandona ("I am who I am, I have been where I have been") e perciò è naturale chiedersi: chi è veramente Dick Whitman? E cosa condivide, oltre al nome, con Charles Whitman o Richard “Dick” Speck o Dick Wayman?
Nell’acchito di Underworld, Edgar J. Hoover insegue due pagine di giornale fra le migliaia gettate dagli spalti durante una partita di baseball. Quelle due pagine contengono una riproduzione del Trionfo della morte di Pieter Bruegel che, per Hoover, rappresenta la visione profetica degli effetti di un’imminente guerra atomica. L’irresistibile attrazione per la morte dello Hoover di DeLillo è analoga a quella che deve aver provato Dick Wayman mentre produceva i suoi video di educazione stradale dai titoli geniali e grotteschi come Mechanized Death o Highway of Agony. Forse Wayman, come il Dr. Vaughn in Crash di Ballard, sperava di produrre non una nuova sessualità ma una nuova coscienza “nata da una perversa tecnologia”, forse le sue intenzioni, nonostante la violenta pornografia dei suoi film, erano buone. Come buone sono, erano le intenzioni di Don “Dick” Draper nei confronti, beh, di chiunque ma in particolare di Adam Whitman, il fratellastro che si è impiccato nel corso della prima stagione, e nei confronti del compianto Lane Pryce che ha fatto la stessa fine.
Due “istigazioni” al suicidio non fanno di Don un omicida, naturalmente, né una vaga omonimia basta a farlo entrare nel club dei serial killer. Ma cosa vede Don quando si guarda allo specchio? La vede la macchina bruciante che egli stesso è? Qual’è il suo punctum? Non potrebbe essere Mad Men la storia di un incidente visto al rallentatore?
3. Mormorare la sinfonia della vita
È una bellissima immagine (che descrive lo stato d’animo di Cosgrove dopo che la rivelazione del suo mestiere segreto di scrittore ha prodotto una reazione ostile fra i colleghi), e un’immagine che coglie, forse anche idealizzandola, l’urgenza della creatività, che trasforma questa in una lotta per la vita e la morte, per il profitto o il fallimento: uno schema concettuale davvero equivoco che in Mad Men si ripete continuamente. Perché equivoco?
Perché da un lato la creatività sembra la cosa più umana dell’uomo, ciò che ci distingue, noi umani, dall’animale, dall’altro sembra la cosa più animale dell’uomo, ciò che distingue l’animale uomo da tutti gli altri animali.
È la natura del capitalismo “sintetico” descritto da Ayn Rand (la scrittrice preferita di Bert Cooper) che nutre l’equivoco, un capitalismo in cui creare e fare soldi sono una sola e la stessa cosa: un miraggio che ritroviamo p.e. nel brand che ci ha venduto Steve Jobs in tutti questi anni, e che proviene dal mito del capitalismo delle origini descritto, fra gli altri, in There Will Be Blood di Paul Thomas Anderson, un film nel quale esplorazione, scoperta, appetito e ingegno (e spietatezza) sono indistinguibili.
In Mad Men, la S&C e la SCDP sono in perenne conflitto con l’esterno in quanto rappresentanti di una sorta di capitalismo “sintetico” contro quello “analitico” delle altre agenzie, in particolare Putnam, Powell & Lowe (che nella terza stagione acquisisce la S&C) e McCann Erickson (che, nel frattempo, acquisisce PP&L). Al contempo, sia nella S&C sia nella SCDP si protrae una lotta intestina fra creativi e corporativi, una sorta di specchio di ciò che accade all’esterno nel quale l’immagine del creativo è quella di un’animale in cattività dall’etologia imprevedibile (il cacciatore/seduttore Don) e l’immagine del corporativo è quella di un addomesticatore impotente (il violentatore/ruffiano Pete).
È inutile sottolineare che il Beethoven di Cosgrove e Don sono molto diversi: in fondo la creatività non è arte ma solo una particolare arte, un mestiere se volete, cioè il mestiere di avere idee. Tuttavia l’immagine della morte sulla porta che si taglia le unghie, il punctum di quel breve acchito, si adatta perfettamente anche a Don e ai suoi pisolini creativi, che poi sono il corrispettivo della furia di Beethoven.
Composition avec lignes, 1971 |
Come in The Sopranos o in The Wire, e come in The Walking Dead, la morte è uno dei protagonisti di Mad Men e lo è al contempo come qualcosa di letterale e trascendente.
La morte in questi show è il gesto estetico, il gesto pittorico di dare la morte e, insieme, la trascendenza di quel gesto, qualcosa che mostra il suo farsi (che è un farsi nell’attesa, un lasciare che le cose si facciano da sole) e che lo trascende.
La morte, la sola presenza, il rischio della morte è molto più di un deterrente esistenziale che ci spinge verso una vita autentica: è qualcosa che digitalizza la vita, la riduce a linee orizzontali e verticali come in Composition avec lignes di Piet Mondrian del 1917, dove oceano, croce, chiesa, cimitero, individuo, collettività convivono in uno spazio in cui non vi è più riferimento a nulla di tutto questo, in cui non vi è punctum e dunque è impossibile qualsiasi gerarchia. L’unica cosa possibile è una dialettica, nel senso di qualcosa che unisca la singolarità della morte all’universalità del linguaggio.
Cosa significa tutto questo nonsense, tutto questo Jabberwocky? Che di fronte al rischio di morire (p.e. quando nella quarta stagione la crisi economica colpisce la SCDP e i creativi si sentono sotto assedio perché sanno che saranno i primi a essere sacrificati) quello che dice Pete a Don, prima del silenzio, nella scena in ascensore di Signal 30 ha molto senso: we are supposed to be friends. Cioè, dovremmo parlarci, dovremmo essere amici, noi linee orizzontali e verticali, dovremmo parlare, discutere come è accaduto in Shut the Door, Have a Seat o in The Suitcase.
Appunto, The Suitcase, un episodio dove la morte si fa un trattamento di bellezza completo mentre furiosamente Don e Peggy cercano di comporre uno spot per Samsonite e il processo creativo diventa una dialettica, un terzo conflitto ancora più interno, ancora più profondo: "I give you money, you give me ideas!" dice Don a Peggy. "And you never say thank you!… And that’s what the money is for!" Ma anche un conflitto in cui non serve supporre che Don e Peggy siano amici perché è chiaro che lo sono, molto prima che Don stringa la mano di Peggy alla fine dell’episodio in un gesto opposto ma complementare a quello di Peggy nel pilot.
La storia di questi due, come l’Inno alla gioia che parte alla fine di Signal 30, incomincia con una semplice melodia mormorata fra sé e sé (è così che venne in mente a Beethoven l’Inno? borbottando? e il basso solitario all’inizio è una nostalgia di questa origine?), incomincia come ogni processo creativo a partire da astrazioni, da qualcosa che riesce a essere letterale e trascendente al contempo, una dialettica sinfonica circondata da due limiti: l’orizzonte della vita e il vertice della morte.
4. L'ardente dolore dell'essere
Il Fato degli animali, 1917 |
La situazione è questa: Kandinsky e Marc erano afflitti da due generi diversi di sinestesia. Quella del russo era forse patologica e celebrava il matrimonio fra musica e colori, quella del tedesco era una sorta di empatia autodistruttiva. Così, se Kandinsky continuò a eseguire linee e colori come un ossessivo direttore d’orchestra imprigionato nel labirinto interiore dell’astrattismo, Marc (che morì giovanissimo a 36 anni) non fu mai un pittore puramente astratto ma un pittore ibrido che cercò di cogliere empaticamente il punto di vista interiore non solo dell’uomo ma anche dell’animale (come vede il mondo un cavallo?) pervenendo però alla radicale alterità dell’animale, a un’alterità al di là dell’empatia. Sul retro della sua opera più famosa, Il fato degli animali, scrive: Und Alles Sein ist Flammend Leid, e tutto l’essere è dolore ardente. Ma se la vita di ogni essere è dolore, è proprio nella singolarità di ogni dolore che l’alterità è più profonda, è proprio lì che l’essenziale inumanità dell’animale si manifesta.
L’ardente dolore dell’essere sembra penetrare tutto in Mad Men, attraversare ogni personaggio acutizzando l’alterità dell’altro a tal punto che pare talvolta impossibile non solo la condivisione ma persino la relazione. E il viaggio in ascensore di Don e Pete in Signal 30 che citavo poco fa è un esempio proprio dell’incolmabile distanza che può raggiungere improvvisamente l’Altro.
Essendo uno studio del desiderio, è inevitabile che la storia di Mad Men torni ciclicamente a quel nodo culturale per il quale l’uomo, quell’animale che ha conosciuto solo la cattività, si chiede quali potrebbero essere i suoi istinti se fosse un animale libero, cioè mette in relazione la propria animalità con quella dell’animale come fa Franz Marc nelle sue opere. Gli stupri cui assistiamo (p.e. quello di Greg ai danni di Joan, quello “consenziente” del tizio della Jaguar, quello di Pete ai danni della babysitter) così come i vari tradimenti consumati dai personaggi e in particolare quelli di Don, sembrano tutti originarsi da un incontrollabile desiderio: incontrollabile perché scaturisce dall’incontro fra l’animale che ci sarebbe in noi (che soffre per la cattività) e un agente disinibitore che di volta in volta tiene in scacco i desideri, cioè ci rende gli animali che siamo. Stanno così le cose?
In Smoke Gets in Your Eyes, il pilot dello show, vediamo all’opera un meccanismo simile. Don deve convincere il patriarca di Lucky Strike, Lee Garner Sr., che la Sterling & Cooper è sul pezzo, cioè che nonostante la recente scoperta della tossicità del tabacco sarà ancora possibile vendere sigarette. Le preoccupazioni di Lee Garner Sr. sono in realtà superflue visto che, come Don scriverà in seguito (The Summer Man), le sigarette sono un prodotto "for which good work is irrelevant because people can’t stop themselves from buying it", tuttavia ci sono, sono lì quelle preoccupazioni, si possono tagliare con un coltello nella sala riunioni della S&C nella quale il magnate del tabacco, il figlio Lee Garner Jr. e un altro paio di becchini aspettano che Don risolva con un colpo di genio tutti i loro problemi. E forse non si tratta di preoccupazioni, forse il punto è che ciò di cui Lee Garner Sr. (animale del selvatico capitalismo idealizzato da Ayn Rand) ha bisogno riguarda più da vicino altro, per esempio il senso di colpa, o semplicemente la logica della colpa, qualcosa che giustifichi l’omicidio di massa che compie vendendo sigarette.
La presentazione di Don segue pedissequamente le regole di David Ogilvy (Confessions of an Advertising Man) o, se preferite, quelle codificate da Vance Packard (The Hidden Persuaders), cioè offre a Lee Garner Sr. sicurezza emotiva, un nuovo inizo e la gratificazione dell’ego ("freedom from fear, the smell of a new car, a billboard on the side of the road that screams with reassurance that whatever you’re doing it’s okay, you’re okay"). Però a un livello più profondo, o forse solo laterale, Don sta vendendo un agente disinibitore che consenta a Lucky Strike di continuare a spacciare quelle armi di distruzione di massa che sono le sigarette e che impedisca ai fumatori di incontrare direttamente la pulsione di morte.
Prima della riunione, la psicologa Greta Guttman (un avatara di Ernest Dichter e del nipote di Freud Edward Bernays, i pionieri del cosiddetto deep approach, la ricerca psicologica applicata alla pubblicità) aveva consigliato a Don di usare nella sua presentazione proprio la pulsione di morte insita nell’atto di fumare. Don ignora quello che gli dice Guttman perché istintivamente sa che il desiderio non è mai diretto o immediato e l’idea che afferra all’ultimo secondo (in realtà mutuata da un vecchio slogan della vera Lucky Strike), cioè “it’s toasted”, risulta tanto più interessante in quanto dimostra che per disinibire il consumatore, per metterlo in scacco e indurlo a comprare un determinato prodotto, non solo non è necessario ma è controproducente avvalersi della specifica funzione (anche profonda) o dell’uso del prodotto che si commercializza. È molto meglio e più efficace una qualsiasi cosa, qualcosa che abbia a che fare ma che non sia il “fare” dell’oggetto: nel caso di Lucky Strike qualcosa che, alludendovi, ci distragga dalla morte e in cui magari vibri una certa virilità (la tostatura del tabacco), e qualcosa che permetta di distinguere quel particolare oggetto da tutti gli altri con lo stesso nome (le altre sigarette, non tostate). Come dice Don, che le sigarette facciano male è un’occasione unica per la pubblicità: perché a questo punto tutti i produttori di tabacco devono ripartire da zero; cosa che, a guardar bene le cose, vale per qualsiasi merce (p.e. oggi, dei prodotti con la concentrazione più alta di funzioni al mondo, gli smartphone, l’ultima cosa che si vende con la pubblicità sono proprio le funzioni).
L’ardente dolore dell’essere sembra penetrare tutto in Mad Men, attraversare ogni personaggio acutizzando l’alterità dell’altro a tal punto che pare talvolta impossibile non solo la condivisione ma persino la relazione. E il viaggio in ascensore di Don e Pete in Signal 30 che citavo poco fa è un esempio proprio dell’incolmabile distanza che può raggiungere improvvisamente l’Altro.
Essendo uno studio del desiderio, è inevitabile che la storia di Mad Men torni ciclicamente a quel nodo culturale per il quale l’uomo, quell’animale che ha conosciuto solo la cattività, si chiede quali potrebbero essere i suoi istinti se fosse un animale libero, cioè mette in relazione la propria animalità con quella dell’animale come fa Franz Marc nelle sue opere. Gli stupri cui assistiamo (p.e. quello di Greg ai danni di Joan, quello “consenziente” del tizio della Jaguar, quello di Pete ai danni della babysitter) così come i vari tradimenti consumati dai personaggi e in particolare quelli di Don, sembrano tutti originarsi da un incontrollabile desiderio: incontrollabile perché scaturisce dall’incontro fra l’animale che ci sarebbe in noi (che soffre per la cattività) e un agente disinibitore che di volta in volta tiene in scacco i desideri, cioè ci rende gli animali che siamo. Stanno così le cose?
In Smoke Gets in Your Eyes, il pilot dello show, vediamo all’opera un meccanismo simile. Don deve convincere il patriarca di Lucky Strike, Lee Garner Sr., che la Sterling & Cooper è sul pezzo, cioè che nonostante la recente scoperta della tossicità del tabacco sarà ancora possibile vendere sigarette. Le preoccupazioni di Lee Garner Sr. sono in realtà superflue visto che, come Don scriverà in seguito (The Summer Man), le sigarette sono un prodotto "for which good work is irrelevant because people can’t stop themselves from buying it", tuttavia ci sono, sono lì quelle preoccupazioni, si possono tagliare con un coltello nella sala riunioni della S&C nella quale il magnate del tabacco, il figlio Lee Garner Jr. e un altro paio di becchini aspettano che Don risolva con un colpo di genio tutti i loro problemi. E forse non si tratta di preoccupazioni, forse il punto è che ciò di cui Lee Garner Sr. (animale del selvatico capitalismo idealizzato da Ayn Rand) ha bisogno riguarda più da vicino altro, per esempio il senso di colpa, o semplicemente la logica della colpa, qualcosa che giustifichi l’omicidio di massa che compie vendendo sigarette.
La presentazione di Don segue pedissequamente le regole di David Ogilvy (Confessions of an Advertising Man) o, se preferite, quelle codificate da Vance Packard (The Hidden Persuaders), cioè offre a Lee Garner Sr. sicurezza emotiva, un nuovo inizo e la gratificazione dell’ego ("freedom from fear, the smell of a new car, a billboard on the side of the road that screams with reassurance that whatever you’re doing it’s okay, you’re okay"). Però a un livello più profondo, o forse solo laterale, Don sta vendendo un agente disinibitore che consenta a Lucky Strike di continuare a spacciare quelle armi di distruzione di massa che sono le sigarette e che impedisca ai fumatori di incontrare direttamente la pulsione di morte.
Prima della riunione, la psicologa Greta Guttman (un avatara di Ernest Dichter e del nipote di Freud Edward Bernays, i pionieri del cosiddetto deep approach, la ricerca psicologica applicata alla pubblicità) aveva consigliato a Don di usare nella sua presentazione proprio la pulsione di morte insita nell’atto di fumare. Don ignora quello che gli dice Guttman perché istintivamente sa che il desiderio non è mai diretto o immediato e l’idea che afferra all’ultimo secondo (in realtà mutuata da un vecchio slogan della vera Lucky Strike), cioè “it’s toasted”, risulta tanto più interessante in quanto dimostra che per disinibire il consumatore, per metterlo in scacco e indurlo a comprare un determinato prodotto, non solo non è necessario ma è controproducente avvalersi della specifica funzione (anche profonda) o dell’uso del prodotto che si commercializza. È molto meglio e più efficace una qualsiasi cosa, qualcosa che abbia a che fare ma che non sia il “fare” dell’oggetto: nel caso di Lucky Strike qualcosa che, alludendovi, ci distragga dalla morte e in cui magari vibri una certa virilità (la tostatura del tabacco), e qualcosa che permetta di distinguere quel particolare oggetto da tutti gli altri con lo stesso nome (le altre sigarette, non tostate). Come dice Don, che le sigarette facciano male è un’occasione unica per la pubblicità: perché a questo punto tutti i produttori di tabacco devono ripartire da zero; cosa che, a guardar bene le cose, vale per qualsiasi merce (p.e. oggi, dei prodotti con la concentrazione più alta di funzioni al mondo, gli smartphone, l’ultima cosa che si vende con la pubblicità sono proprio le funzioni).
5. Ceci nes't pas un viol
La presentazione di Don per Lucky Strike raggiunge la sua forma più sublime in quella di Ginsberg in Mistery Date nella quale in vendita c’è l’immaginario dello stupro.
La Trahison des images, 1928-29 |
In un contesto psicosessuale gotico, Cenerentola, avvolta dalle ombre, fugge da un misterioso inseguitore zoppicando con una sola scarpa. Quando l’inseguitore la raggiunge, al culmine della terrore, non importa chi sia, che faccia abbia, se sia il principe azzurro o il fatasma dell’opera, tutto quello che fa è porgerle la scarpetta smarrita. Lei la prende e, come dice Ginsberg, "she knows she’s not safe but she doesn’t care. I guess we know in the end she wants to be caught…" Qui la funzione dell’oggetto (le scarpe da donna e dunque il camminare o il sedurre camminando) è persino negata visto che fuggire da un pericolo con i tacchi, anzi con uno solo non è esattamente né sexy né comodo. Ma ciò che più importa è che l’idea di Ginsberg ignora tutti i passaggi intermedi, cioè non usa più un agente disinibitore per vendere qualcosa ma vende direttamente l’oggetto in quanto agente disinibitore (come un feticcio), nella fattispecie per la mascolinità animalesca del maschio. Questa strategia, che domina la pubblicità contemporanea, non è limitata ai disinibitori sessuali (sia maschili sia femminili come ad esempio i profumi) ma attraversa diagonalmente ogni tipo di merce. Può farlo perché offre una fantasia nella quale i desideri sono complementari: nella presentazione di Ginsberg l’uomo vuole restituire la scarpetta (ma attenzione, ceci nes’t pas une chaussure) e la donna in fondo vuole essere presa. Il contesto gotico, in questo caso idealizzato, serve a confutare omeopaticamente la realtà gotica nella quale viviamo, quella realtà in cui in realtà la donna non vuole essere presa e l’uomo è più facilmente un violentatore, Greg o Pete Campbell.
Infatti la presentazione di Ginsberg e la realtà sono così lontane che, quando qualche episodio dopo (The Other Woman) Joan diventa l’oggetto delle attenzioni di Herb Rennet, il capo dei venditori della Jaguar, lo spot di Ginsberg non ha più alcun senso. Joan è un disinibitore vivente per qualsiasi desiderio maschile e non è né strano né inaspettato che Rennet, un omino viscido e di aspetto mediocre, la desideri. Né è strano che questi pensi che Joan ci starebbe visto che l’immaginario dello spot di Ginsberg riflette quello maschile dell’epoca (che poi è il “potere d’acquisto” maschile dell’epoca). Ma sarebbe stato molto strano se Joan avesse “in fondo” desiderato Rennet, non tanto per il suo aspetto fisico (anche per quello) ma per tutto il resto. È solo per una catena di contingenze (o, se volete, per “sano” utilitarismo) che i due finiscono a letto. E, chiaramente, ceci nes’t pas un viol.
Alla resa dei conti non è detto che tutti quei desideri animali siano davvero animali ma è possibile che noi vogliamo che lo siano e che Mad Men sia una sorta di sinfonia pastorale messa in scena da attori terrestri la cui sofferenza (inflitta e afflitta) è alla resa dei conti umana, troppo umana.
6. Il nomos dell'aperto
100 Cans, 1962 |
Parafrasando un famoso passo di Giorgio Agamben, il mercato è l’aperto del consumatore, ciò che sollecita le nostre reazioni “istintuali” obbligandoci ad agire nell’unico modo possibile: consumando. Le merci che ci circondano non hanno nulla da offrirci ma ci tengono in scacco in quanto disinibitori. Non è che consumiamo in base a un riflesso condizionato, non abbiamo perduto la nostra libertà diventando cani di Pavlov e le merci non sono campanelli che ci fanno automaticamente salivare. Sappiamo perfettamente ciò che stiamo facendo, anche perché ne va della nostra identità… siamo finalmente liberi. Liberi, e dunque schiavi: per usare una frase di Pasolini, siamo passati dalla condizione di sudditi a quella di consumatori.
Alexandre Kojéve, il filosofo hegeliano che, fra l’altro, era nipote di Kandinsky, avrebbe detto che la vita diventa umana solo con l’annientamento dell’animale, una riflessione implicita nel quadro di Marc di cui ho parlato prima e anche in Guernica di Pablo Picasso: in entrambi i casi (uno scenario pre bellico e uno post) l’inumanità dell’animale rivela la disanimalità dell’uomo e, di conseguenza, il fatto che le pulsioni “animali” dell’uomo sono molto diverse da quelle degli animali, che p.e. nello “stupro” descritto da Ginsberg le ombre e la preda sono indistinguibili e che in questo “fallimento” ottico non sarebbe mai incappato un vero predatore notturno. Rivela cioè che dotando di senso ogni cosa, nominandola e annientandola, l’uomo oblitera la sua animalità creando infine un aperto artificiale, il capitalismo, e riempiendolo di disinibitori, le merci.
In questo senso, la presa di coscienza di Don in The Summer Man a proposito delle sigarette è duplice: da un lato mostra la caratteristica fondamentale di ogni merce nel momento in cui consuma il consumatore (che la merce sia un biscotto del Mulino Bianco o un profumo), cioè la sua funzione di disinibitore per il godimento “animale” dell’uomo; dall’altro rivela la differenza fondamentale fra godimento (che esiste senza l’Altro) e desiderio (che non può esistere senza l’Altro).
Le serie delle zuppe Campbell’s o delle scatole Brillo di Warhol ci mette di fronte alla stessa duplice rivelazione: mostrandoci un angosciante aperto senza gerarchia (il punctum è in ogni lattina di zuppa), ci satura costringendoci a mettere in discussione la natura delle nostre pulsioni (godimento o desiderio?), ancora una volta ci avvicina allontanandoci e ci allontana avvicinandoci.
Questa differenza fra godimento e desiderio si vede benissimo anche quando in Signal 30 Pete, che come sappiamo ha già dei gran problemi con il godimento, insieme a Don e Roger accompagna in un bordello d’alto bordo un dirigente della Jaguar. Qui, mentre Don fa, come si suol dire, il bravo bambino, Pete finisce a letto con una prostituta e il dialogo fra questi due (che può essere anche letto come un monologo) è splendido:
"You think this is going to be easy?" dice Pete.
"I do, I really do", dice la prostituta. E rimane in bikini leopardato sul letto.
"You any good at this or not?" chiede Pete ribadendo il sottotesto, cioè: sei tu in grado di indovinare il mio desiderio o no? E qui incomincia la contrattazione.
"Oh, honey, you’ve had such a hard day", recita la prostituta (Che vuoi?)
"Nope".
"This is my first time, I’m kind of nervous". (Di nuovo, che vuoi?)
"Nope".
"You’re my king". (Ancora, che vuoi?)
"Okay", e Pete cede.
Notate la solita scrittura precisa di Weiner (qui insieme a Frank Pierson): il primo ruolo che interpreta la prostituta è quello di Trudy, la moglie di Pete, il secondo quello di Peggy ai tempi in cui Pete ci è andato a letto. Il terzo ruolo è quello che la babysitter ha negato a Pete e corrisponde probabilmente a come si è sentito Pete violentando la babysitter, solo, in quel caso, senza relazione con l’Altro e senza riconoscimento, e dunque senza desiderio. Non importa che Pete debba pagare per soddisfare il suo desiderio, anzi no, importa eccome perché un’altra volta vediamo quanto godimento e desiderio siano vicini ma lontani.
Mi viene in mente una frase di Carl Schmitt nel Nomos della terra: è significativo il fatto che l’uomo, quando si trova su una costa, guardi spontaneamente dalla terra verso il mare aperto e non, al contrario, dal mare verso la terra. Non è altrettanto significativo che quando l’uomo vuole godere guardi da se stesso verso l’aperto e non viceversa?
7. E' una sporca città ma qualcuno la deve abitare
Il dialogo fra Pete e la prostituta è anche la constatazione di un’ovvietà: il desiderio è un linguaggio, il desiderio è linguaggio. E quando Sally, alla fine di At the Codfish Ball, dice che “la città è sporca” sta dicendo che la città che ha appena visitato nella sua prima uscita ufficiale, la città dei “grandi”, la città del linguaggio, è difficile, ambigua, equivoca.
Sally proviene da una delusione sentimentale perché, al Codfish Ball del titolo, Roger l’ha innocentemente corteggiata tutta la sera ma poi s’è chiuso in una stanza per farsi fare una fellatio dalla madre di Megan, Marie. È un esito incomprensibile per chi non conosce il linguaggio del desiderio e non si è accorto di essere stato usato come terzo nella relazione fra due, come attore in uno spettacolo in cui Roger mette in scena uno spot per pubblicizzare la sua ritrovata joie de vivre. Non lo è per noi che siamo un altro genere di terzo, lo spettatore: noi sappiamo abbastanza bene come parla il desiderio, le sue omissioni, le sue rimozioni, i suoi giochi di parole. Sappiamo che è il linguaggio a “parlare noi” e non viceversa.
Das Schweigen von Marcel Duchamp wird Überbewertet, 1964 |
Non è per questa ragione che nel 1964, durante una performance televisiva, Beuys dipinse Il silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato, ma quest’opera che parla di un silenzio è un capolavoro di linguaggio che “ci parla”.
Il silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato ha soprattutto a che fare con l’attivismo estetico di Beuys e dei quasi-colleghi del movimento Fluxus. Entrambi intendono il ready-made come un oggetto la cui vera natura (cioè quella natura di oggetto totalitario del quale siamo in balia nel consumismo) ha da essere rivelata. In questo senso, il silenzio di Duchamp (che, per quel che ne sapeva il mondo aveva lasciato l’arte per gli scacchi), oltre a essere di per sé una forma d’arte, è un silenzio colpevole, il silenzio di chi ha abbandonato l’oggetto di consumo in una dimensione giocosa quanto si vuole ma contemplativa e acritica, il silenzio di chi, forse, è riuscito a spostare il feticismo dell’oggetto di consumo sull’oggetto dell’arte, di chi ha sdoganato l’arte come godimento.
Ironicamente, le performance linguistico-drammatiche del Fluxus e quelle simbolico-sciamaniche di Beuys sono state inghiottite dagli oggetti che dovevano rivelare, mentre la transustaziazione artistica di Duchamp, la trasformazione di un oggetto qualsiasi in un’opera d’arte, un oggetto artistico “già pronto” per il godimento, ha colto in pieno il destino delle cose.
L’opera di Beuys rimane comunque un capolavoro perché dà voce a un silenzio indubbiamente sopravvalutato e al contempo sopravvaluta il silenzio rendendolo l’oggetto di un’opera d’arte, dà un plusvalore al silenzio, esprime il desiderio che Duchamp, finalmente, parli.
Da questo punto di vista, ciò che durante le presentazioni i clienti vogliono dai pubblicitari è anche che diano voce al silenzio degli oggetti, vogliono che i pubblicitari diano un plusvalore al silenzio, esattamente quel plusvalore che, indipendentemente dalle funzioni di un particolare oggetto, ritroviamo nel nome dell’oggetto, che questo sia il nome di Duchamp su ogni opera di Duchamp (tutte le opere di un artista sono in fondo omonime), che sia un nome articolato lungo una storia come nella presentazione di Ginsberg o un nuovo nome come “Carousel” per il proiettore della Kodak della prima stagione: il silenzio degli oggetti è sempre sopravvalutato perché se non lo fosse non potremmo desiderarli.
Insomma, non – come pensava de Saussure – il significato determina il significante ma, come pensa Lacan, è la catena di rinvii infiniti dei significanti a determinare i significati e dunque la realtà.
Il silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato ha soprattutto a che fare con l’attivismo estetico di Beuys e dei quasi-colleghi del movimento Fluxus. Entrambi intendono il ready-made come un oggetto la cui vera natura (cioè quella natura di oggetto totalitario del quale siamo in balia nel consumismo) ha da essere rivelata. In questo senso, il silenzio di Duchamp (che, per quel che ne sapeva il mondo aveva lasciato l’arte per gli scacchi), oltre a essere di per sé una forma d’arte, è un silenzio colpevole, il silenzio di chi ha abbandonato l’oggetto di consumo in una dimensione giocosa quanto si vuole ma contemplativa e acritica, il silenzio di chi, forse, è riuscito a spostare il feticismo dell’oggetto di consumo sull’oggetto dell’arte, di chi ha sdoganato l’arte come godimento.
Ironicamente, le performance linguistico-drammatiche del Fluxus e quelle simbolico-sciamaniche di Beuys sono state inghiottite dagli oggetti che dovevano rivelare, mentre la transustaziazione artistica di Duchamp, la trasformazione di un oggetto qualsiasi in un’opera d’arte, un oggetto artistico “già pronto” per il godimento, ha colto in pieno il destino delle cose.
L’opera di Beuys rimane comunque un capolavoro perché dà voce a un silenzio indubbiamente sopravvalutato e al contempo sopravvaluta il silenzio rendendolo l’oggetto di un’opera d’arte, dà un plusvalore al silenzio, esprime il desiderio che Duchamp, finalmente, parli.
Da questo punto di vista, ciò che durante le presentazioni i clienti vogliono dai pubblicitari è anche che diano voce al silenzio degli oggetti, vogliono che i pubblicitari diano un plusvalore al silenzio, esattamente quel plusvalore che, indipendentemente dalle funzioni di un particolare oggetto, ritroviamo nel nome dell’oggetto, che questo sia il nome di Duchamp su ogni opera di Duchamp (tutte le opere di un artista sono in fondo omonime), che sia un nome articolato lungo una storia come nella presentazione di Ginsberg o un nuovo nome come “Carousel” per il proiettore della Kodak della prima stagione: il silenzio degli oggetti è sempre sopravvalutato perché se non lo fosse non potremmo desiderarli.
Insomma, non – come pensava de Saussure – il significato determina il significante ma, come pensa Lacan, è la catena di rinvii infiniti dei significanti a determinare i significati e dunque la realtà.
8. L'Altro Donna
Che tipo di giocatore era Duchamp quando giocava sulla scacchiera dell’arte e del linguaggio?
Nel Corso di linguistica generale, per esemplificare la differenza fra parole (parola) e langue (lingua), cioè fra l’atto singolare del parlare e il sistema di riferimento astratto nel quale può avvenire la parola, de Saussure usa una famosa metafora scacchistica: la langue corrisponde alle regole del gioco degli scacchi che permangono indipendentemente dalla natura dei pezzi (d’avorio o di legno) e dalle mosse dei giocatori (cioè la parole) che possono svilupparsi in tempi e sequenze molto diverse a seconda della partita.
Duchamp scacchista è l’autore insieme al Gran Maestro Vitaly Halberstadt di un testo intitolato L’Opposition et les cases conjuguees sont reconciliees (Opposizione e case corrispondenti sono riconciliate), uno studio puramente teorico su finali molto rari che dimostra la possibile convergenza dei due modi alternativi di leggere i finali simmetrici, quello secondo l’opposizione (cioè il fronteggiarsi dei due re a distanza di una casa) e quello secondo le case corrispondenti (cioè la necessità, per mantenere la posizione, di muovere i pezzi in una determinata casa se i pezzi dell’avversario sono stati mossi nella casa corrispondente).
Come nota Hubert Damisch (La defense Duchamp), l’interesse per i finali simmetrici e le case corrispondenti di Duchamp ricorda un passo nel quale de Saussure dice che è attraverso l’opposizione delle parole che si crea un significato: un dato termine in un particolare linguaggio non ha alcun valore se non per differenza e opposizione con gli altri termini.
Duchamp fa lo stesso con l’arte e con il linguaggio e, come nel caso degli scacchi, è affascinato dai casi limite, da differenze e opposizioni limite come quelle citate da Thierry de Duve in Nominalisme pictural: Marcel Duchamp, la peinture et la modernité:
virgin/bride, vierge/verge, peindre/[pendre], passeur/pas soeur!, Cézanne/Suzanne
Le Passage de la Vierge a la Mariée, 1912 |
Dice de Duve che ne Le Passage de la Vierge a la Mariée del 1912 ciò che separa la vergine dalla sposa è la differenza di una “I”, cioè il significante rimosso del fallo, che è poi il significante del rimosso. Togliendo la “I” da vierge (vergine) si ottiene verge (pene), cioè il segno della perdita della verginità. Similmente, togliendo la “I” da peindre (dipingere) si ottiene pendre (appendere). Così la “vergine da dipingere” diventa “la sposa da appendere” o, come si legge in uno schizzo nella Boite Verte, diventa Le Pendu Femelle, la femmina — nel senso della specie — appesa (e, in relazione al genere dell’articolo, come fa notare Edward D. Powers, “la femmina che è un ‘LUI’ e che pende”), una tipica figura androgina di Duchamp “impiccata” (pendu) nel linguaggio.
Vierge/verge contiene sia la domanda (di riconoscimento) all’Altro che caratterizza la dialettica del desiderio (vierge?… verge!) sia quel resto della domanda di cui parla Lacan ne La significazione del fallo, domanda che non potendo annullare del tutto il bisogno da cui proviene lascia un residuo. Questo residuo della domanda, cioè ciò che resta dell’operazione significante dopo che la “verga” si è “impiccata” innalzando il significante della “vergine”, è qualcosa che sopravvive, che non viene mortificato, e che rifiuta la dialettica e nutre il godimento: la “I”. Intervenendo sull’algebra di Duchamp dovremmo scrivere: vierge/verge/(ì).
The Other Woman (l’altra donna/l’Altro donna) è un episodio nel quale il il desiderio femminile accetta, per realizzarsi, il prezzo del godimento maschile. È l’episodio in cui Joan in pratica si prostituisce (con il già citato Herb Rennet della Jaguar) per salvare la SCDP ma anche per diventare socia dell’agenzia, quello in cui Peggy accetta la seduzione dell’alter ego di Don, il Bizzarro-Don Chaough, licenziandosi dalla SCDP per andare a occupare una posizione simile a quella del suo mentore alla Cutler Gleason & Chaough, insomma, quello in cui le donne vogliono essere riconosciute e, con l’aiuto del godimento maschile, ci riescono. E se a questo punto è più chiaro il fatto che una donna-oggetto non è altro che un oggetto-donna, ciò che vediamo nell’episodio è una “rivolta degli oggetti” che, in qualche modo, si lasciano annichilire per sopravvivere alla mortificazione del godimento.
Vierge/verge contiene sia la domanda (di riconoscimento) all’Altro che caratterizza la dialettica del desiderio (vierge?… verge!) sia quel resto della domanda di cui parla Lacan ne La significazione del fallo, domanda che non potendo annullare del tutto il bisogno da cui proviene lascia un residuo. Questo residuo della domanda, cioè ciò che resta dell’operazione significante dopo che la “verga” si è “impiccata” innalzando il significante della “vergine”, è qualcosa che sopravvive, che non viene mortificato, e che rifiuta la dialettica e nutre il godimento: la “I”. Intervenendo sull’algebra di Duchamp dovremmo scrivere: vierge/verge/(ì).
The Other Woman (l’altra donna/l’Altro donna) è un episodio nel quale il il desiderio femminile accetta, per realizzarsi, il prezzo del godimento maschile. È l’episodio in cui Joan in pratica si prostituisce (con il già citato Herb Rennet della Jaguar) per salvare la SCDP ma anche per diventare socia dell’agenzia, quello in cui Peggy accetta la seduzione dell’alter ego di Don, il Bizzarro-Don Chaough, licenziandosi dalla SCDP per andare a occupare una posizione simile a quella del suo mentore alla Cutler Gleason & Chaough, insomma, quello in cui le donne vogliono essere riconosciute e, con l’aiuto del godimento maschile, ci riescono. E se a questo punto è più chiaro il fatto che una donna-oggetto non è altro che un oggetto-donna, ciò che vediamo nell’episodio è una “rivolta degli oggetti” che, in qualche modo, si lasciano annichilire per sopravvivere alla mortificazione del godimento.
9. Morire è un'arte
Lady Lazarus è una poesia sul suicidio (che Sylvia Plath tentò più volte finché, a trentuno anni, non le riuscì), ma soprattutto è una poesia dalla quale si espande un’immagine di olocausto femminile.
I versi della Plath si ergono su quattro metonimie di corpo. Prima il corpo è un paralume, un fermacarte, “lino ebraico”, trasformazione tecnico-industriale della carne. In secondo luogo il corpo è parti di corpo, mani, ginocchia, pelle e ossa, impudico esibizionismo. La terza volta il corpo è oro, cenere, sapone, alchemica transustanziazione dalla quale emergono, in forma di residui, oggetti di altre metamorfosi (un fede nuziale, una protesi dentaria). Infine è demone mangia-uomini dalle rosse chiome, fenice, resurrezione.
Diverse figure dell’abisso maschile testimoniano queste metamorfosi (o, in un’ipotesi più inquietante, le rendono possibili riportando in vita il corpo morente, impedendo al corpo di morire): “o my enemy”, “peanut-crunching crowd”, “Herr Doktor”, “Herr God / Herr Lucifer”. Rappresentano il maschio nazista teocratico e tecnocratico che osserva il morente corpo femminile che non muore (e osservando forse, come ho già detto vuolefermare la morte), di volta in volta come il corpo di un ebreo da bruciare, il corpo di una spogliarellista, un prodigio medico, un miracolo, un enigmatico puzzle di reliquie.
A metà della poesia, come nota Jon Rosenblatt (Sylvia Platt: The Poetry of Initiation), c’è un lampo di autocoscienza: Plath descrive la sua carriera di suicida e, con la virulenza narcisistica di chi evidentemente conosce bene il suo mestiere (l’arte di morire per l’appunto), trasforma per un attimo la poesia in performance, body art, recita allegorica nella quale mostra se stessa mentre si lascia guardare dall’abisso.
Dying
Is an art, like everything else.
I do it exceptionally well.
I do it so it feels like hell.
I do it so it feels real.
I guess you could say I’ve a call.
Alla fine, in Mad Men non sarà una donna a suicidarsi ma un uomo, Lane Pryce, il più castrato degli uomini dello show (ricordate quando in Hand and Knees viene battuto dalla verge — il bastone da passeggio — del padre?). La sua morte è presagita fin dal primo episodio della quinta stagione (nella premiere Lane dice che rimarrà in ufficio tutta la vita) e si compie con una performance di body art messa in scena nel silenzio di un garage, una performance abortita, interrotta dall’inaffidabilità della tecnologia e portata a termine su un altro palco silenzioso, quello dell’ufficio.
Trans-Fixed, 1974 |
L’essenziale ambiguità della body art dipende dal fatto che sovrappone il soggetto e l’oggetto dell’arte, presenza e rappresentazione, semantica e semiotica. Può essere sia una celebrazione dell’espressività del corpo sia una mortificazione di quello, in ogni caso tiene in bilico lo spettatore su un confine doppiamente insuperabile fra interattività e interpassività, fra il processo in corso del dipingere (peindre), cioè la dinamica della significazione, e l’atto dell’appendere (pendre), la statica del significato. Come nella performance di Chris Burden del 1974 intitolata Trans-Fixed, nella quale Burden è (letteralmente) crocifisso su un maggiolone che scivola fuori da un garage, la body art mette lo spettatore di fronte alla cruciale domanda “se/quando intervenire?”, una domanda che crea un impasse nel desiderio e che, poiché l’appendere non esaurisce mai il dipingere, lascia un residuo (nel caso di Trans-Fixed, le foto o le reliquie dei chiodi usati da Burden per la crocifissione).
“Se/quando intervenire?” è esattamente il problema di Don di fronte alla performance in fondo vitalistica di Joan (Don interviene ma troppo tardi) e a quelle mortificanti di Adam e Lane (Don non interviene): se/quando, cioè mai. Non il “mai” del testimone che deve fare uno sforzo per non imporre significanti antropologici al leone che sbrana il cucciolo di gazzella, ma di quello che, per usare le parole di Heidegger, a differenza dell’animale sa “lasciar essere” (o forse, come la body art ci suggerisce, non può che “lasciar essere”).
“Se/quando intervenire?” è esattamente il problema di Don di fronte alla performance in fondo vitalistica di Joan (Don interviene ma troppo tardi) e a quelle mortificanti di Adam e Lane (Don non interviene): se/quando, cioè mai. Non il “mai” del testimone che deve fare uno sforzo per non imporre significanti antropologici al leone che sbrana il cucciolo di gazzella, ma di quello che, per usare le parole di Heidegger, a differenza dell’animale sa “lasciar essere” (o forse, come la body art ci suggerisce, non può che “lasciar essere”).
10. L'insostenibile fantasia del Reale
Selbstbemalung, 1965 |
Il problema è che non conosciamo mai l’Altro, il vicino, il prossimo, il Suo desiderio. E, in questo senso, il Che vuoi? di Lacan che era all’opera nel dialogo fra Pete e la prostituta è, come dice Slavoj Zizek, “non tanto una investigazione di ciò che vogliamo ma di ciò che ci “innervosisce” (inquieta?), ciò che ci rende insopportabili non soltanto agli occhi degli altri ma anche ai nostri stessi occhi, ciò che noi stessi ovviamente non riusciamo a controllare”.
Sì, dovremmo essere amici, ma come facciamo se io in fondo non ho la minima idea di chi tu sia? Posso certamente specchiarmi in te e proiettare la mia immagine o affidarmi all’ordine simbolico dei rapporti sociali e accettare di essere capo, figlio, marito, soldato, ecc., ma alla resa dei conti l’Altro assoluto che che c’è in te (e in me) rimarrà sempre per me (e per te) un inafferrabile mistero.
Questo mistero (inumano?) che in fondo potrebbe divorarci, disintegrarci, che potrebbe essere il mistero dei serial killer Richard Speck e Charles Whitman e che l’Aktionismusviennese (qui un'Autopittura di Günter Brus) ha avvicinato alla superficie della realtà attraverso il nichilismo della sua pratica artistica, è ciò che Lacan chiama il Reale e che non è la realtà. Anzi, la realtà, così come la fantasia, rappresenta un argine al crudo Reale. La realtà (che peraltro si forma a partire – a patire? – da un’immagine fantasmatica) è una struttura protettiva, la nostra difesa nei confronti dell’insensatezza e della scabrosità del Reale.
In Mistery Date tutto questo lo vediamo benissimo. C’è la fantasia di stupro della presentazione di Ginsberg che descrive la natura paradossale della visione fantasmatica, la sua provenienza dal Reale (e dunque la sua necessaria liminazione) e il suo ruolo di argine (sottolineato dal fatto che lo spot finisce in maniera davvero urbana con un gesto “cavalleresco”) e c’è il crudo Reale di Speck che arriva, in parte arginato, attraverso la soggettività di massa dello spettacolo giornalistico. E poi ci sono Sally e Don. Sally non resiste alla curiosità di guardare le foto relative a Speck pubblicate sul tabloid che legge la nonna, mentre Don, febbricitante, passa la notte immerso nell’incubo in cui diventa Dick Speck o Charles Whitman e assassina un’ex amante. Sally, che a un certo punto non riesce più a distinguere le ombre da se stessa e si sente una preda, alla fine ingoia un sonniffero che le dà la nonna, non prima però che la nonna abbia letteralmente drammatizzato la storia di Speck trasformandola in una fiaba, in una fantasia dei fratelli Grimm. Don è solo risvegliandosi dall’incubo e poi con l’apparizione di Megan che si libera dal sogno che lo aveva portato troppo vicino al crudo Reale.
Come dice Zizek, “i sogni non sono lì per coloro che non sanno sopportare la realtà, è piuttosto la realtà stessa a essere lì per coloro che non sanno sopportare (il Reale che si annuncia nei) loro sogni.”
11. Si muore solo infinite volte
Orange and Yellow, 1956 |
È probabile, possibile, che anche l’animale conosca l’impossibilità della vita. Certamente non conosce il “lasciar essere” che c’è tra l’impossibile che ci precede e quello che ci segue. Non può immaginare la permanenza, non può immaginare il seguito dell’esistenza dopo la calata del sipario. Questa è una cosa soltanto umana, l’abilità di proiettarsi nel futuro anteriore della morte, quando non ci saremo più, quando ci saremo stati, quando un altro impossibile si realizza perché il mondo non finisce con noi.
Nel finale della quinta stagione, The Phantom, proprio alla fine dell’episodio parte You Only Live Twice, una canzone di John Berry cantata da Nancy Sinatra per l’omonimo film di James Bond.
Sembra scritta apposta per Mad Men, con quell’allusione allo straniero (il vicino che diventa improvvisamente straniero?) nel momento in cui invade la nostra vita addomesticata ("life seems tame") con la pericolosità, l’oscenità, l’insopportabilità dell’amore, quella cosa che ci fa sentire “il gap fra noi in quanto esseri determinati [il nostro nome!] e quell’insondabile X [anonimo] in noi che causa l’amore” (Zizek).
Si vive solo due volte, dunque, una per se stessi e una per quel sogno, quel fantasma che è l’amore, una per se stessi e una per (attraverso/insieme a/oltre?) l’Altro. “Twice” però significa anche doppio, è anche il segno della ripetizione, e magari indica anche il fatto che non possiamo che vivere doppiamente, in noi stessi e nell’Altro come accade a Don, Peggy e Roger in Far Away Places, l’episodio che ruota intorno al Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti (letteralmente “libro della liberazione attraverso la liminazione” o “attraverso lo stato intermedio”) e l’episodio in cui sembra che la vita possa essere spiegata come una successione di intervalli nella continuità o come continuità negli intervalli, in cui continuità e intervallo sono, naturalmente, simultanei.
È forse quando l’intervallo compare nella continuità, interrompe la continuità senza causare alcuna discontinuità (come i colori di Rothko, il pittore che Bert Cooper sfoggia nel suo ufficio), quando l’intervallo è uno stato intermedio e transpersonale (un bar-do), è forse solo allora che per un istante è possibile tornare alla continuità diventando ciò che siamo, lasciandoci essere ciò che saremo stati. In quegli istanti di euforia o angoscia si apre forse un aperto che non è né quello dell’animale né quello claustrofobico che abbiamo eretto in un mondo nel quale non c’è più un solo territorio sconosciuto, un mondo svelato completamente, angosciosamente.
Forse la musica è davvero la più grande forma d’arte perché è un intervallo che non intacca la continuità come ogni singola vita terrena nel Bardo Thodol non intacca il Samsara, l’intero ciclo di vite in fondo al quale vibra il miraggio della liberazione dalla vita, l’impossibile possibile. Forse bisogna diventare maestri di morte, saper morire continuamente, per dominare la doppia vita della parola, il significato e i significanti dell’amore.
Nel finale della quinta stagione, The Phantom, proprio alla fine dell’episodio parte You Only Live Twice, una canzone di John Berry cantata da Nancy Sinatra per l’omonimo film di James Bond.
You Only Live Twice or so it seems,
One life for yourself and one for your dreams.
You drift through the years and life seems tame,
Till one dream appears and love is its name.
And love is a stranger who’ll beckon you on,
Don’t think of the danger or the stranger is gone.
This dream is for you, so pay the price.
Make one dream come true, you only live twice.
Sembra scritta apposta per Mad Men, con quell’allusione allo straniero (il vicino che diventa improvvisamente straniero?) nel momento in cui invade la nostra vita addomesticata ("life seems tame") con la pericolosità, l’oscenità, l’insopportabilità dell’amore, quella cosa che ci fa sentire “il gap fra noi in quanto esseri determinati [il nostro nome!] e quell’insondabile X [anonimo] in noi che causa l’amore” (Zizek).
Si vive solo due volte, dunque, una per se stessi e una per quel sogno, quel fantasma che è l’amore, una per se stessi e una per (attraverso/insieme a/oltre?) l’Altro. “Twice” però significa anche doppio, è anche il segno della ripetizione, e magari indica anche il fatto che non possiamo che vivere doppiamente, in noi stessi e nell’Altro come accade a Don, Peggy e Roger in Far Away Places, l’episodio che ruota intorno al Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti (letteralmente “libro della liberazione attraverso la liminazione” o “attraverso lo stato intermedio”) e l’episodio in cui sembra che la vita possa essere spiegata come una successione di intervalli nella continuità o come continuità negli intervalli, in cui continuità e intervallo sono, naturalmente, simultanei.
È forse quando l’intervallo compare nella continuità, interrompe la continuità senza causare alcuna discontinuità (come i colori di Rothko, il pittore che Bert Cooper sfoggia nel suo ufficio), quando l’intervallo è uno stato intermedio e transpersonale (un bar-do), è forse solo allora che per un istante è possibile tornare alla continuità diventando ciò che siamo, lasciandoci essere ciò che saremo stati. In quegli istanti di euforia o angoscia si apre forse un aperto che non è né quello dell’animale né quello claustrofobico che abbiamo eretto in un mondo nel quale non c’è più un solo territorio sconosciuto, un mondo svelato completamente, angosciosamente.
Forse la musica è davvero la più grande forma d’arte perché è un intervallo che non intacca la continuità come ogni singola vita terrena nel Bardo Thodol non intacca il Samsara, l’intero ciclo di vite in fondo al quale vibra il miraggio della liberazione dalla vita, l’impossibile possibile. Forse bisogna diventare maestri di morte, saper morire continuamente, per dominare la doppia vita della parola, il significato e i significanti dell’amore.
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