lunedì 26 gennaio 2015

TV SERIALE: DOVE FABIO VOLO E SAVIANO S'INCONTRANO

"Per una qualche strana ragione..." Incomincia così un articolo di Saviano su Repubblica del 23 Gennaio. "Strano" è l'orizzonte degli eventi del linguaggio, oltre il quale nessuna parola, nessuna grammatica e sintassi possono influenzare il lettore. E' anche il rifugio di chi non sa esattamente di cosa parla.

1) "Serializzare" è diventata una brutta parola e Saviano pensa che sia per "qualche strana ragione". In realtà lo è da un pezzo, perché è una parola del conflitto fra capitalismo e socialismo, affine ai concetti di mercificazione, produzione in serie, ecc. Comunque sia, "serializzare" nel club semantico della critica televisiva ha un connotato del tutto positivo.

2) La serialità è sempre esistita, soprattutto nell'800, ma ce n'eravamo dimenticati. Per fortuna la TV l'ha riportata in voga e ci ha fatto ri-innamorare. Tutti (tutti?) i maggiori scrittori hanno scritto romanzi d'appendice (no). Ah, e a margine, Dostoevskij e Tolstoj sono definiti "talenti letterari".

3) La differenza fra romanzo d'appendice e serialità televisiva è il metodo: l'uno è un romanzo pubblicato a puntate, l'altra è tante puntate pubblicate a romanzo. E, persino, se un'opera della TV seriale venisse mandata in onda tutta insieme, sarebbe ancora una collezione di episodi e non un romanzo, mentre un romanzo d'appendice tutto insieme è solo un libro.

C'è una cosa che unisce Fabio Volo e il Saviano che parla di TV: sono entrambi ninja del luogo comune. Ovviamente, romanzo e TV non sono la stessa cosa; il romanzo è un libro, la TV è una scatola sovente più sottile di un libro. Ma per quel che riguarda la forma, lo schema, la struttura narrativa, le serie televisive hanno una tendenza a adottare quelli del romanzo. Una serie non sarà mai un romanzo, principalmente perché parla all'occhio in maniera differente — la TV è un altro medium con tutte le conseguenze del caso — ma proprio adesso che Netflix, Amazon e i nuovi attori del panorama televisivo mettono in onda contemporaneamente tutti gli episodi di uno show, non si può ignorare che la serialità televisiva abbia stretto ulteriormente il suo abbraccio intorno alla struttura narrativa del romanzo: gli episodi sono sempre più simili a capitoli e una serie può essere tranquillamente consumata tutta insieme. Fra l'altro, le serie usano massicciamente le tecniche del romanzo d'appendice (preview, suspance, cliffhanger, ecc.) e dunque è difficile dire che un romanzo d'appendice  — anche quelli che sono romanzi interi pubblicati a puntate e dunque in vista dell'appendice — sia semplicemente un romanzo una volta che viene pubblicato tutto insieme. Allora, perché una serie pubblicata tutta insieme non sarebbe semplicemente una sorta di romanzo?


4) Saviano è convinto che la "precisa ragione" per il ritorno alla serialità (che non se n'è mai andata però) sia il fatto che è una "forma di resistenza al consumo". Ovvero una delle merci più consumistiche al mondo, la serialità narrativa, sarebbe una forma di resistenza al consumo. Infatti, quando adoriamo una serie diventiamo così resistenti al consumarla che guardiamo giusto i primi due tre episodi e poi la lasciamo lì.

5) Le serie ci accompagnano nel quotidiano e non ci costringono a quell'opera di sintesi cui invece ci costringono i film (?), e ciò significa che le serie assomigliano più alla vita "perché non smettono in un paio d'ore".

6) Oggi è il "momento d'oro" delle serie TV ma ricordiamoci che negli anni '80 la TV era superficiale, "trionfo dei sentimenti o avventure surreali" (e magari crime drama). "In ogni caso contraltare alla realtà spietata". Raramente nelle serie degli anni '80 c'erano tracce della "complessità del reale". Cioè, adesso vi dico una cosa assoluta, che la TV degli anni '80 era superficiale, ma "raramente" no. In realtà la TV degli anni '80 è piena di serie che affrontano la "complessità del reale", magari non la psicologia della complessità come le serie contemporanee, ma nondimeno la complessità. M.A.S.H., Hill Street Blues, St. Elsewhere, Miami Vice e molte altre, e persino una citata da Saviano come esempio di superficialità, cioè Different Strokes, Il mio amico Arnold, che però andò in onda fra i '70 e gli '80, e che nel packaging della commedia parla di integrazione.

7) La nuova TV è più complessa del cinema (questo è il re dei luoghi comuni) e è "un esercizio alla complessità". "Affronta spesso temi attuali e mondi veri o verosimili, facendo della realtà - anche la più cruda, anche la più difficile da accettare - il fulcro su cui svilupparsi e non la dimensione da cui fuggire." Tralasciando la retorica della cruda realtà, questa è un'opinione difficilmente confutabile.

8) La serialità innesca la fidelizzazione che è "l'elemento più prezioso" del commercio, "alla base di qualsiasi tipo di vendita". Ma poiché le serie televisive hanno valore (corsivo mio), allora trascendono "il vincolo del marketing". Cioè, le serie possono permettersi "di essere più complesse senza rischiare di perdere spettatori dopo il primo weekend".

A parte che commercio e marketing sono due cose diverse, qui a Saviano mancano proprio le basi dell'economia televisiva: le serie TV sono un prodotto estremamente lucroso proprio perché non trascendono mai la fidelizzazione dello spettatore. E, inoltre, il marketing è perpetuo in TV. Se una serie perde il marketing significa che è alla fine, the end, kaput, che il network che la manda in onda ha mollato il colpo. Saviano procede dicendo, in sostanza, che gli autori di serie oggi hanno più libertà, possono sviluppare personaggi e storie come vogliono, ma ancora una volta non ha idea di come funziona il business. Nessuno showrunner, tranne forse Matthew Weiner di Mad Men e Louis C.K., ha totale libertà. Non solo il processo produttivo di uno show è vincolante visto che un episodio può costare milioni di dollari, soprattutto nel caso di serie di successo, ma mantenere gli spettatori, e dunque sopravvivere in mondo estremamente competitivo, significa scendere continuamente a compromessi con il gusto generico del pubblico. Il sistema della TV è capitalismo allo stato puro e i casi di serie tenute in vita per ragioni "artistiche" si contano sulle dita di una mano. Deadwood, uno dei più grandi show di sempre, un capolavoro di linguaggio e complessità, è stato cancellato per ragioni prettamente commerciali, come se un editore avesse cestinato Guerra e Pace dopo averne letto la metà. E' ingenuo pensare che una serie TV possa trascendere la sua materialità, cioè il suo esistere in questo mondo, o tutti i vincoli, commerciali e non, che la tengono in vita. E non parlare di brand, identità dei network e tutti gli argomenti correlati impedisce di comprendere appieno la relazione tra rating e sopravvivenza di una serie.

9) Il mercato dell'intrattenimento (libri, cinema, TV) ha "parametri di successo impossibili da soddisfare", tipo vendere un milione di copie di un certo libro in un unico paese. (Ci sono editori che se un libro vende un trentesimo di quelle copie, lo considerano un successone.) Continua Saviano: in questo contesto, "la TV è sottomessa alla spada di Damocle dello share" (cioè i rating), "che la nascita del digitale e la diffusione del satellite hanno reso ancor più affilata, ma le serie hanno in parte la possibilità di smarcarsi da questo meccanismo: da un punto di vista produttivo i loro risultati, infatti, possono essere valutati nel tempo, su più piattaforme e in diversi paesi. Il loro successo può crescere con la fruizione, con la distribuzione: non si consumano passaggio dopo passaggio ma anzi diventano cult".

"In parte" è una delle locuzioni avverbiali che Saviano usa lungo il suo articolo per pararsi quella parte. In questo caso quello che dice non è vero neanche "in parte". In primo luogo il digitale e il satellite hanno svincolato le serie dai rating, come p.e. nel caso di Netflix che addirittura non li comunica affatto. I rating rimangono un'arma "affilata" per i media che adesso definiamo tradizionali, cioè network e cable TV, ma sono sempre meno importanti in un contesto in cui ogni singolo spettatore può acquistare p.e. ogni singolo episodio di ogni singola serie. Ciò non significa che i rating scompariranno o diverranno inutili: sono fondamentali per la pubblicità nel caso dei broadcast network e come punto di riferimento nel caso dei cable network. Diciamo che il sistema di calcolo dei rating è destinato a cambiare. In secondo luogo, non è vero che i risultati di una serie possono essere valutati nel tempo. Se una serie non viene cancellata (e viene esportata) è perché funziona, perché i risultati si vedono fin da subito. Le serie che vengono tenute in vita fino alla fine, nonostante rating bassi, sono pochissime, anzi di quelle qualitativamente rilevanti se ne possono contare, storicamente, solo tre, The Wire, Treme (entrambe di David Simon) e, per ragioni indipendenti dalla qualità intrinseca di questo show, Fringe. Ciò non significa che la TV non potrebbe un giorno orientarsi verso un modello di business che favorisca, diciamo così, un po' più di pazienza, solo che adesso le cose non stanno così né sono destinate a cambiare nell'immediato futuro. (Per quel che riguarda la "fruizione" di cui Saviano parla nell'ultima frase, non capisco la differenza fra il fruire una serie "passaggio dopo passaggio" e il fatto che possa essere "cult".)

10) Insomma, per Saviano "serializzare significa speculare, ma non nell'accezione orrida" (ovvero quella economica, ovvero proprio quella del sistema televisivo). Significa "speculare nel significato filosofico di indagare" in maniera tale da "far rispecchiare il lettore" (forse voleva dire lo "spettatore"). In fondo, "riflettere, torcere, approfondire la stessa idea è il modo migliore per far attraversare l'intero mondo attraverso quell'idea". Ce lo diceva "impropriamente" anche Heidegger, "pensare è limitarsi a pensare a un solo pensiero che un giorno si arresterà nel cielo del mondo, come una stella".

Okay, la citazione "impropria", cioè "a cazzo" ci voleva. Non so, però magari, visto che citiamo "a cazzo", avremmo potuto citare anche questa di Heiddeger: il poetare e il pensare si assomigliano purissimamente nella cura diligente della parola, essi sono insieme quanto mai divisi nella loro essenza. Il pensatore dice l'Essere; il poeta dà un nome al Sacro. Oppure questa che, fuori da ogni contesto, mi sembra più consona: il fatto più considerevole nella nostra epoca preoccupante è che ancora noi non pensiamo. O, almeno, non verifichiamo quasi mai i fatti.

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