martedì 22 novembre 2011

ROMANZO, TELEVISIONE E ALDO GRASSO CHE DICE COSE

Non possiedo una televisione, non ho l'antenna, neppure la presa per l'antenna se è per questo, e l'ultima volta che i miei occhi si sono posati su un programma trasmesso direttamente da un network dev'essere stato... no, non ricordo, forse mesi fa a casa di qualcuno. Al limite, potrebbe rientrare nella categoria "guardare la televisione" lo streaming di qualche evento sportivo o di programmi come Annozero che, tuttavia, non era già più televisione anche quando andava in onda sulla RAI, almeno se accettate la "premessa" ex post che dentro Annozero ci fosse già Servizio Pubblico, il nuovo programma non-televisivo di Michele Santoro.


Ho un computer, YouTube e altri strumenti per ovviare ai ridicoli ritardi della televisione intesa nel senso più generico del termine, come entità commerciale che produce intrattenimento, informazione e, in svariati casi, cultura. Non è questo il post per dibattere sulle ragioni per le quali i vari network non siano ancora arrivati a un modello di business adatto a me, cioè a me e a voi che seguite questo blog o altri blog come Serialmente e, è superfluo dirlo, portali come ITASA, l'occhio italiano del ciclone per quel che riguarda la serialità televisiva su Internet.

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Intanto, Aldo Grasso ha pubblicato nel Club de La Lettura un articolo intitolato "Accendi la TV. Il romanzo è un telefilm americano".

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Non ho idea se abbia senso dare per scontata (anche come provocazione) "la morte del romanzo, la fine della letteratura e lo svuotamento del più borghese e cristallizzato tra i generi". Personalmente, mi capita di leggere grandi romanzi ogni anno, e alcuni di quelli pubblicati nell'ultimo ventennio li ritengo capolavori (per esempio Underworld di De Lillo che, contrariamente a ciò che sostiene Grasso a proposito del romanzo in generale, oltre a essere molte, moltissime altre cose, è senza dubbio una "grande narrazione che rispecchia e critica" la società), ma magari io non capisco nulla di romanzi e rimango ipnotizzato da Gene Wolfe o da Jeffrey Eugenides solo perché sono cresciuto a videogame e cartoni animati giapponesi. Il fatto è che per essere morto (un'idea dell'inizio del '900 che si è propagata per un secolo diventando a un certo punto post-moderna, post-storica e, più di ogni altra cosa, post-ridicola), il romanzo mi sembra stia benissimo e, piuttosto che chiedersi se effettivamente non sia più fra noi, sarebbe meglio chiedersi con Calvino se sia possibile raccontare storie che non siano romanzi.

In questo senso (e non in quello di Grasso), l'idea che esista una forma-romanzo (immagino che si intenda una sorta di schematismo trascendentale del romanzo) che si adatta a, più che migrare verso, "nuovi e differenti media", mi sembra corretta. Non solo il romanzo è vivo (non in una, ma in tutte le sue forme) ma è la soglia narrativa che generalmente distingue una buona da una cattiva storia. Ho scritto "in tutte le sue forme" perché chiaramente penso non ce ne sia una sola e i pochi esempi di Grasso (dai quali escluderei il mediocre Weeds) limitano notevolmente il raggio d'azione del romanzo come forma narrativa (in particolare sembrano escludere le varie epifanie del romanzo post-moderno in show come Community, Parks and Recreation, il recente American Horror Story o il decaduto Glee).

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Ora, tutto considerato, il 90% della televisione non ha niente a che fare con il romanzo e probabilmente il 70% della scripted television neppure. In più, il 50% degli scripted show sono impresentabili in una discussione in cui appare, anche casualmente, la parola "romanzo". Lo so, sono percentuali "espressioniste" ma sono abbastanza sicuro che si avvicinino alla realtà. I "romanzi televisivi" attualmente in onda, in sostanza, non sono molti e la somma degli ascolti di quelli considerati dei capolavori è inferiore a quelli di una puntata di X-Factor. Non è un dato irrilevante perché denota l'inconsistenza dell'idea che la forma-romanzo, come la chiama Grasso, abbia abbandonato il libro traslocando dalla pagina scritta alla scripted television.

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Grasso parla di convergenza multimediale (o tecnologica) estendendola anche ai linguaggi ma la convergenza riguarda i media (e al limite i loro linguaggi in quanto dipendenti da un particolare medium) non le strutture narrative, e l'unica convergenza fra libro e televisione che vedo è quella per la quale questi due media più che convergere possono diventare interdipendenti (come nel caso di Game of Thrones). Il fatto che la forma-romanzo, cioè la struttura narrativa del romanzo, venga adottata anche in televisione non c'entra con la convergenza (chi ama la "televisione" deve leggere il fondamentale libro di Henry Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media Collide). La forma-romanzo (continuo a usare questa espressione anche se non mi piace) è da sempre una forma pervasiva. Come la forma-racconto, che in una rozza genesi dell'intrattenimento televisivo precede l'arrivo delle strutture narrative del romanzo, essa si è sempre adattata a diversi media. Non solo i videogame, che in genere però la utilizzano il meno possibile (Grasso non dev'essere un gran gamer: uno dei più bei giochi di quest'anno, Limbo è una trappola ripetitiva e bidimensionale che elude qualsiasi forma narrativa) ma anche l'arte, il cinema, la musica (provate a "leggere" l'ultimo grande romanzo musicale di Drake) e persino le nostre biografie.

La cosiddetta forma-romanzo è una delle molteplici strutture narrative a disposizione, probabilmente la più efficace per raccontare una storia e quella all'interno della quale gli archetipi e i tropi narrativi sono stati incessantemente codificati, elaborati e rielaborati. Di fatto, essendo una struttura, non è un linguaggio ma uno schema temporale del racconto che può essere adattato a diversi media. In questo senso, il miscuglio di romanzieri e showrunner che fa Grasso a un certo punto del suo articolo è piuttosto azzardato perché gli showrunner non sono romanzieri: semplicemente entrambi appartengono alla stessa categoria, cioè quella dei narratori.

E' possibile e magari sensata un'analogia fra il lavoro di un romanziere e quello di uno showrunner (e, perché no, quello di un musicista, di un regista o di un capo-programmatore, o di un architetto o di un manager di una multinazionale, ecc.) ma, scusate la ripetizione, gli showrunner non sono i nuovi romanzieri e gli show televisivi non sono i nuovi romanzi. Piuttosto che la frase su Dickens pronunciata da Franzen e citata da Grasso, preferisco ciò che dice Rushdie (che sta preparando una serie di fantascienza per Showtime) e cioè che la televisione è comparabile al romanzo perché è uno dei modi migliori per comunicare idee e storie a un grande pubblico, e perché lo showrunner, come un romanziere, ha il controllo totale dell'opera (che poi non è completamente vero).

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Insomma, se avete letto anche l'articolo di Grasso sapete che concordo con parte di ciò che dice, ma trovo sviante l'idea che gli show televisivi siano i nuovi romanzi o abbiano sostituito i romanzi. Middlesex, il romanzo con cui Jeffrey Eugenides ha vinto il Pulitzer nel 2003, ha venduto tre milioni di copie (solo negli Stati uniti), un numero più alto degli spettatori medi di Mad Men (2,3 milioni), il più grande show attualmente in onda (e il più "romanzesco", se volete).

Anche se lo schema temporale del romanzo è stato recentemente (e finalmente) adottato anche in televisione (in primo luogo dagli inglesi, se vogliamo guardare la cosa da una prospettiva storica), la televisione, continuando a prendere ispirazione dal racconto, dal teatro, dal cinema e da altri linguaggi/media non è diventata romanzo. Piuttosto ha trovato un equilibrio che le ha permesso di raccontare grandi storie usando i tempi del romanzo, anche se spesso in maniera molto diversa dal romanzo. The Wire, per esempio, sarebbe inimmaginabile sulla pagina scritta in forma di romanzo. Il realismo dello show di David Simon si può paragonare, come dice Frenzen, a Dickens ma, più che un romanzo televisivo, The Wire assomiglia a un reportage giornalistico o a un docufiction. La sua bellezza è soprattutto nel suo essere televisione, nell'istantaneità documentaria dell'immagine, nel suo essere non libro ma vivente immagine del mondo, nel suo essere "guardabile", nel suo fuggire la descrittività del romanzo per l'espressività dell'immagine.

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Il potere della convergenza tecnologica ci consente di guardare The Wire qui e adesso, ovunque, domani, il mese prossimo. Basta avere un computer, un laptop o un iPad, una connessione a internet, una minima competenza tecnologica e accesso all'informazione che esiste The Wire. Serve anche pazienza, cultura televisiva e cultura in generale perché The Wire o Mad Men non sono serie che si fanno vedere senza l'aiuto dello spettatore. A differenza di ciò che pensa Grasso, io credo che certi show richiedano una "immersione testuale totale", di più, sottotestuale e, in certi casi, ipertestuale e metatestuale. La televisione, raggiungendo le possibilità narrative del romanzo, è diventata difficile, impegnativa, ostica. Avendolo fatto improvvisamente (e in qualche modo inaspettatamente), a volte può essere persino più ostica dell'iper-codificato romanzo.

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I broadcast network (ma anche i cable network e le pay-tv) si trovano di fronte a un mondo nel quale la convergenza tecnologica ha potenziato i contenuti di un medium in crisi dopo l'avvento di Internet. Non solo, dopo The Sopranos l'interesse per la scripted television si è globalizzato, ha disintegrato i confini sociali, culturali e geografici dell'intrattenimento televisivo. Ma tutti i network (e intendo tutti, non solo quelli americani) ignorano o fanno finta che non esista un tale mondo, cioè quello in cui un pendolare si sveglia la mattina, sale su un treno e (invece di leggere un libro) guarda sul suo laptop lo show preferito andato in onda la notte prima a migliaia di chilometri di distanza.

Magari lo show che sta guardando il pendolare è Fringe, una serie penalizzata dall'assurdità di slot, programmazioni e retrograde logiche produttive. Una serie con milioni di fan (comunque meno di un discreto romanzo) in ostaggio di un manipolo di famiglie statunitensi con macchinetta Nielsen. Non saprei dire se Fringe, che non ha successo per molte comprensibili ragioni, riuscirebbe a sopravvivere in un altro modello di business. Guardo nella mia sfera di cristallo ma, come sempre, non mi dice nulla. Però sarei curioso di scoprire cosa potrebbe fare, libero dalle catene dei rating Nielsen e del traffico internazionale di Cannes. Quali sarebbero allora i suoi rating? Dovendo rispondere in una geografia aperta solo a un pubblico "reale", "attuale", Pinkner e Wyman (gli showrunner) cosa scriverebbero, fin dove si spingerebbero? E quanti fra quelli costretti a pratiche legalmente discutibili sarebbero disposti a sostenere lo show? Domande difficili. Una cosa però è facile: la televisione deve diventare, come i libri, una democrazia diretta.

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