venerdì 2 agosto 2013

THE ACT OF KILLING

E' bene premettere che The Act of Killing non è né un documentario né finzione né entrambi. E’ un film, semplicemente, ma cosa poi esattamente sia è un enigma che, fino alla fine, anzi soprattutto alla fine, solo lo spettatore può decidere se risolvere o meno.

Quello che è, o che dice di essere The Act of Killing è un making of, un documentario sulla produzione di un film che drammatizza la vita dell'indonesiano Anwars Congo, un “gangster” (parola che per gli indonesiani significa “uomo libero”) che nel corso delle purghe del 1965-66 uccise più di mille persone, in prevalenza comunisti (o presunti tali) e cinesi. Il problema, il primo di tanti, è questo: il film su Anwars Congo esiste solo nel contesto del making of, è una finzione nella finzione. E in questa finzione nella finzione, Anwars Congo e i suoi vecchi compagni d'armi interpretano i carnefici e, talvolta, le vittime delle torture e uccisioni di cui sono colpevoli, cioè interpretano loro stessi e le loro vittime; con la conseguenza che il finto film su Anwars Congo, la finzione nella finzione, non solo è ispirato a eventi reali ma è un tentativo di riprodurre quegli eventi cercando di aderire il più possibile ai fatti. Per esempio, le scene degli interrogatori, di tortura e omicidio fanno senza dubbio parte della finzione, addirittura per eccesso dato l'uso greve del trucco e l'introduzione di elementi surreali ma, al contempo, incitano continuamente i protagonisti alla messinscena della memoria, a richiamare dettagli del passato per riprodurre gli avvenimenti con precisione e, dunque, fanno in qualche modo parte del vero.

Si potrebbe dire che la struttura di The Act of Killing è fatta di continue e improvvise irruzioni della finzione nella realtà e della realtà nella finzione, una complessa messinscena all'interno della quale, parallelamente, procedono ulteriori messe in scena, senza che si possa dire dove la messinscena della realtà, la finzione, finisca e incominci la realtà della messinscena.

La prima volta che viene mostrato questo meccanismo si sarebbe tentati di ridurlo a un esperimento mnemonico o, visto che Anwars Congo e complici sono usciti vittoriosi, impuniti (e orgogliosi) dalla Storia, a una trappola per il narcisismo di individui che ovunque sarebbero bollati come criminali di guerra. Tuttavia, con il procedere della storia (che è anche una sorta di Storia con la maiuscola), è chiaro che entrambe le riduzioni, l'esperimento e la trappola, sono, appunto, nient'altro che riduzioni. Per esempio, in un'altra scena del film, uno dei figli delle vittime del ‘65 interpreta il ruolo del padre, il quale fu probabilmente assassinato proprio da Anwars Congo o da uno dei suoi. La scena è preceduta da un dialogo fra gli “attori” (ivi compreso il figlio della vittima) che sembra avvenire all'interno di una bolla di vetro o a mille anni dai fatti, come se il figlio della vittima fosse solo un lontanissimo pronipote che non potrebbe essere toccato di meno dalla morte di un avo che ha conosciuto solo attraverso un libro di Storia. Poi però, durante l'attuale scena di tortura cambia tutto e il figlio della vittima ha un dirompente crollo emotivo: perché sta recitando? A causa dell'immedesimazione nel ruolo come nell'esperimento della prigione di Zimbardo? Perché finalmente ha compreso cosa deve aver provato il padre? Lo sapeva anche prima ma, vinto, terrorizzato, taceva di fronte ai vincitori? Perché nessuna pacificazione può cancellare le ferite degli sconfitti? Una qualsiasi risposta ci soddisferebbe?

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Siamo abituati a leggere la Storia dal punto di vista delle vittime perché la Seconda Guerra Mondiale è un paradosso nel quale i vincitori rimangono imprigionati dopo aver incontrato la libertà abissale del nazismo, quell'assoluto della vita di cui parla Hanna Arendt per cui l'uccisione dell'avversario non è più finalizzata all'annientamento del nemico ma all'eliminazione del pericolo biologico. Leggendo la Storia indonesiana dal punto di vista delle vittime (ad oggi silenziose), il discorso arendtiano (e le successive riflessioni sulla biopolitica di Foucault o Agamben) sembrano un efficace strumento ermeneutico: non a caso Anwars Congo si rifugia senza sosta nell'identità di gangster/uomo libero e i dettagli che riporta dello sterminio del milione di comunisti (o forse più) nel corso del '65-'66 corrispondono, anche se a un livello meno raffinato, alle tipiche tecniche di sterminio dei regimi tanatopolitici. Tuttavia, The Act of Killing non è una storia di vittime ma di carnefici e di carnefici che, come sottolinea uno dei protagonisti, si sentono in pieno diritto di scrivere la Storia come vogliono perché hanno vinto (e continuano a vincere). Il che, sorprendentemente, non ci getta nell'abisso del Male, non ci riempie di indignazione o rancore. In qualche modo quel tuffo nel Male lo abbiamo già fatto leggendo un libro di Storia o, meglio, un libro di Primo Levi come Se questo è un uomo se ci ha toccato, se l'abbiamo compreso; il rancore e l'indignazione li abbiamo già provati in altri contesti. Ciò che The Act of Killing fa è gettarci nell'equivoco teatro del Male, nel proscenio del Male e nella messinscena del Male... cioè a dire, per noi occidentali, come se i nazisti avessero vinto...

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La cosa sconvolgente di The Act of Killing è il progressivo sfumare dei confini fra storia/Storia, memoria e messa in scena, e il ritrovarsi in un luogo che non è né proscenio né platea ma un luogo neutrale di pura improvvisazione (è possibile che il Male improvvisi anche le sue pianificazioni?). Anwars Congo non è né si sente sotto processo e dunque è libero di entrare o rientrare in qualsiasi ruolo; è un attore in pensione che recita in un’ultima grande pièce, una riproduzione del più grande spettacolo cui abbia mai partecipato, il massacro di un milione di comunisti. Lo fece, fu in grado di uccidere personalmente più di mille uomini, perché anche allora stava recitando, perché anche allora aveva la libertà di coprire qualsiasi ruolo? E’ il Male solo un copione che aspetta di accogliere i suoi protagonisti?

E’ interessante che Anwars Congo, l'unico in The Act of Killing che sembra avere ripensamenti se non una coscienza, sia anche il peggior attore del film. Al contrario, i suoi complici non sembrano avere alcun rimorso e riescono a (ri)entrare facilmente nel ruolo: in fondo, una piccola esitazione può danneggiare la migliore delle performance, aprire una voragine sotto ai piedi dell'attore, figuriamoci uno che ha di fronte il titanico compito di interrogare, torturare e uccidere migliaia di esseri umani. E’ così che il Male attira i suoi attori, come un impresario che ti promette il successo a patto che reciti fino in fondo la tua parte in uno degli atti del dramma della Storia?

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The Act of Killing è anche una riflessione sulla propaganda e — ma questo sarebbe un capitolo a parte — uno strano omaggio alla violenza nel cinema, tuttavia Anwars Congo & Co. sono assolutamente consapevoli delle esagerazioni ideologiche che li hanno nutriti e ammettono tranquillamente che lo sono sempre stati. E’ la propaganda solo un canovaccio sul quale chi decide di partecipare alla messinscena può liberamente improvvisare? E’ più che una scusa o una giustificazione, una motivazione?

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Anwars Congo è un uomo simpatico ed è veramente difficile odiarlo, anche quando descrive le sue violenze. All'inizio del film danza sul terrazzo sul quale avvennero la maggior parte dei suoi omicidi: gioioso e pieno di vita non sembra per nulla toccato da ciò che ha fatto, e perché dovrebbe? Clinicamente potremmo definirlo uno psicopatico o un sociopatico ma, anche noi, perché dovremmo? E’ un gangster, è un uomo libero e ha espresso la sua libertà come ha potuto, come ha voluto. Ci può consolare il fatto che via via scopriamo che Anwars Congo non dorme la notte. Ma quel che è fatto non è forse fatto? In particolar modo il malefatto?

Alla fine del film di Joshua Oppenheimer, Anwars Congo torna sul terrazzo dove ritrova gli oggetti di scena utilizzati all'inizio per descrivere gli omicidi. Li osserva, li tocca come se fossero proprio gli antichi strumenti dei suoi massacri: arriva il contraccolpo, la realizzazione di ciò che ha fatto, forse il pentimento. O no? E’ il momento più ambiguo del film, quello in cui tutti i ruoli di Anwars Congo si sovrappongono, quello di protagonista di The Act of Killing, di protagonista del film nel film, di co-protagonista nel ruolo di vittima, di protagonista del making of, di un documentario, di cavia in una sorta di esperimento, di attore nella storia e nella Storia e nel film e nel documentario e nel making of... A questo punto Oppenheimer ci ha già tolto ogni certezza, ha già indebolito il principio di realtà a tal punto che, per esempio, ci è difficile dire se la scena in cui Anwars Congo era stato torturato lo stesse davvero turbando o se la trasmissione televisiva per pubblicizzare il film nel film che precede di poco la scena finale non fosse un'invenzione surreale dei Monthy Python.

Su quel terrazzo agli sgoccioli di The Act of Killing, non possiamo sapere e non sapremo mai cosa stia realmente accadendo all'assassino Anwars Congo.

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