domenica 7 dicembre 2014

TV: 2014

In un'epoca in cui le epoche durano solo qualche anno, l'oro ha circa mille età, e per entrare nella storia di qualunque cosa basta essere un po' più mediocri della media, l'idea di rimasterizzare The Wire non sembra la colossale stupidaggine che è; persino David Simon la difende (o meglio, fa di tutto per non mettere una trave fra le ruote al marketing della HBO). Perché scandalizzarsi, dunque? D'altra parte, rimasterizzare The Wire è qualcosa che cercano di fare tutti da anni, cioè rifarlo, "masterizzare l'arte" di The Wire, emulare quell'opera d'arte però facendo anche qualche dollaro in più. Per quale ragione, allora, inquietarsi se tagliano e rimodellano i negativi dello show quando per anni hanno tagliato e rimodellato la narrazione? 

L'ultimo caso di emulazione di The Wire è quello di Gotham, l'ennesimo fallimento dovremmo aggiungere, perché la Baltimora di The Wire sarà sempre più Gotham di qualsiasi città stilosa ispirata agli scarichi dei condizionatori d'aria e al neo-gotico di Blade Runner, e perché la rappresentazione della corruzione e i conflitti fra giustizia e ingiustizia sono così infantili in Gotham che sembra che gli ultimi trent'anni di fumetto (e di televisione) non siano mai accaduti. Gotham è The Wire per seienni, con un protagonista appena percettibile (Gordon) e un deuteragonista-antieroe che staziona stabilmente nella "zona morta" del dialogo (Bullock). Allora, in mezzo alla banalità che è questo show, è facile trovare le uniche cose buone: l'interpretazione di John Donam (un attore di The Wire) di Don Falcone e quella di Robert Lord Taylor di Penguin, un personaggio e un attore che di episodio in episodio hanno rubato la scena a tutti.

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Un altro che ruba la scena a tutti, e qui parlo della grande scena, è The Good Wife, perché diventare ancora più grande nella sua sesta stagione non è da tutti, anzi da nessuno. L'infaticabile analisi delle procedure attraverso le quali l'uomo si fa - o pretende di farsi - giustizia ha fatto un ulteriore salto di qualità con l'esplorazione di procedure parallele alla giustizia ufficiale e, tramite la storyline di Cary, con la rappresentazione del sistema penitenziario. In più, la corsa di Alicia per la carica di Procuratore Distrettuale ha aperto una linea narrativa che non solo ci porta dietro le quinte di una campagna elettorale in perfetto stile The Good Wife, ma alza la temperatura dei conflitti interiori e di quelli personali e ambientali della Buona Moglie. Nell'insieme, molto meglio dell'osannato True Detective.

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E a proposito di True Detective, ricordate le immagini aeree girate da Cary Fukunaga durante il colpo degli Iron Crusader? Certo che le ricordate, perché sono la miglior TV dell'anno, o la peggiore, a seconda dei punti di vista.

Come The Affair e Fargo, True Detective è uno show situazionale, evocativo, erratico. Dimostra che per agganciare lo spettatore, un certo tipo di spettatore in grado di esprimere pubblicamente opinioni articolate, non serve essere intelligenti, basta sembrarlo. Questa nuova generazione di show, che potremmo tranquillamente chiamare con-show, si tiene in piedi finché non arriva il momento di mostrare quello che c'è sotto, cioè quando finalmente emerge la superficialità che si trova sotto alla superficie. True Detective sbrocca verso la fine, quando il Pascal della Louisiana si trasforma in un orsacchiotto pieno di buoni sentimenti, Fargo riesce a mantenere una certa coesione grazie al tono surreale, mentre The Affair va a ramengo quasi subito, quando diventa chiaro che i punti di vista narrativi sono solo un pesante make-up per nascondere il remake di Falcon Crest, e che i personaggi rispecchiano i luoghi comuni più triti e ritriti del maschile e femminile.

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Piuttosto, se uno volesse proprio guardarsi qualcosa di situazionale, è meglio, molto meglio The Knick, uno show che ha qualche difficoltà in fase di scrittura ma che si libra nell'empireo della televisione quando viene preso in mano da Soderbergh. The Knick trasforma il concetto di regia televisiva a tal punto che quasi tutte le regie televisive che lo precedono sembrano, appunto, "regie televisive". Direte, facile, Soderbergh è un genio; ma la verità è che non serve un genio per portare la regia televisiva dove la scrittura è già arrivata: basterebbe liberare la regia dalla gabbia dei format produttivi dei vari network, così come, almeno in parte, è stata liberata la scrittura dopo i Soprano. Poi, vabbè, Soderbergh si libera liberando anche il nostro occhio, arrivando dove la scrittura non può arrivare, facendo trascendere il voyeurismo dello spettatore in orgia estetica, rendendo inutili i dialoghi, amalgamando gli attori e i personaggi, le immagini e la storia. Non c'è show quest'anno che, senza voler a tutti i costi sorprendere o shockare, mi abbia scaricato nella memoria tante immagini belle quanto The Knick.

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La memoria fatica, invece, quando cerchiamo di ricordare almeno una comedy decente. A parte Louie, che non è una comedy, e che continua a mescolare le carte, sperimentare, destrutturare, inventare qualcosa di nuovo a ogni episodio, e a parte qualche veterano che si tiene a galla come The Big Bang Theory, New Girl e Brooklyn Nine-Nine, il resto è deserto. Le Nuove Comedy sono inguardabili. Tranne, naturalmente, You're the Worst, che fa quello che tutti cercano di fare da anni, cioè ribaltare i meccanismi della commedia tradizionale continuando però a fare commedia.

Comunque sia, la palma di miglior comedy dovrebbe andare a Veep che non solo è sostenuto da una immensa Julia Louis-Dreyfus (la "Bryan Cranston" della commedia), ma anche dalla scrittura quasi sempre perfetta di Armando Iannucci e della sua writers room in un tempo in cui sembra veramente difficile (far) ridere.

Menzioni: Broad City, High Manteinance, Rick and Morty, Bob's Burger, Key & Peele. 

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Ciò che non sembra difficile, almeno agli inglesi, è fare dei grandi crime-drama. Quest'anno sono tre: Happy ValleyThe Missing e The Fall.

Qualcuno dovrebbe scrivere un saggio sulla semi-incapacità della TV statunitense di produrre grandi personaggi femminili. Dopo, un saggio sui personaggi femminili nella TV europea che, a partire dal classico esempio di Jane Tennison (Helen Mirren) in Prime Suspect, sono sempre interessanti, stratificati e complessi. Esattamente come Catherine Cawood, il personaggio principale di Happy Valley interpretato da una notevole Sarah Lancashire. Non solo, Happy Valley ha anche una trama che eccede continuamente i possibili finali in cui incappa: possiede una linearità che va avanti finché può, cioè finché non ha approfondito ogni angolo della psicologia dei personaggi ben al di là del crimine al centro della storia.

The Missing ha una struttura simile a quella di Happy Valley, nel senso che, ancora una volta, il crimine è solo il tessuto connettivo di una storia che esplora ogni aspetto dei personaggi. In più, The Missing gioca con il tempo annullando la distanza fra il rapimento dal quale prende le mosse la vicenda, avvenuto molti anni prima, e la soluzione del caso che comincia a intravedersi solo nel presente. Aggiungete una fotografia digitale straordinaria e la migliore interpretazione della carriera di James Nesbitt, e cosa volete di più?

Magari una seconda stagione di The Fall migliore della prima? Basta chiedere, o accendere la TV e sintonizzarsi sulla storia di Stella Gibson e Paul Spector che, quest'anno, si avventura in territori ancor più violenti offrendo la relazione fra maschile e femminile in una dimensione, se possibile, più inquietante e angosciante. Gillian Anderson dimostra che recitare è un lavoro millimetrico e che non serve sbracciarsi e ululare per slittare dalla confidenza alla fragilità o dalla sensualità glaciale del suo personaggio alla dolcezza. Jamie Dornan continua a sostenere una normalità orrorifica che fa più paura di qualsiasi festa horror in televisione.

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Infatti, per rimanere in tema, fra il pacchiano Helix, il confuso The Strain e il camp ripetitivo di American Horror Story, l'horror fa una gran fatica a adattarsi alla TV. Riescono a emergere dalla mediocrità solo il grandissimo Hannibal e, sorprendentemente, la buona quinta stagione di The Walking Dead.

Hannibal supera il viscido ostacolo della seconda stagione brillantemente, correggendo alcuno ingenuità dell'esordio e raccontando l'inversione dei ruoli fra Hannibal e Will con eleganti svolte narrative e alcuni dei dialoghi più intelligenti in TV.

Nel frattempo, TWD si riprende all'improvviso da quella che ormai sembrava un perenne (seppur luccicante) mediocrità. Fra le svariate ragioni che i convertiti dell'ultima ora adducono per la rinascita dello show c'è il fatto che basta con le fattorie e le prigioni, finalmente il gruppo di sopravvissuti guidato da Rick Grimes è sempre in movimento e la storia procede con un passo accettabile. E' un argomento che sembra avere una sua sensatezza, ma per me la questione è molto più semplice: lo show adesso è scritto meglio e rispetta più da vicino lo spirito del fumetto. Quando cambia lo showrunner c'è sempre un periodo di assestamento e questa è la prima volta che TWD ha lo stesso showrunner per due stagioni consecutive (Scott Gimple). Il problema di TWD è sempre stato quello di essere un grande veicolo di intrattenimento con altissimi valori produttivi ma mai all'altezza degli apici toccati dal fumetto. Finalmente, Gimple e Kirkman hanno aggiustato il tiro e, oltre all'ottima strategia di non tirare troppo per le lunghe nessuna storyline, i due produttori sembrano aver deciso che le milionate di spettatori che seguono lo show sono anche in grado di sopportare dialoghi sensati e svolte narrative coerenti.

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Il che mi fa immediatamente pensare a Person of Interest. Come The Good Wife, Person of Interest è ormai quasi completamente serializzato: a colpi di "numeri irrilevanti" Johnatan Nolan ha costruito una storia in cui non solo le trame di ogni episodio sono sempre rilevanti ma anche i dialoghi e le azioni dei personaggi. Senza contare il perfetto equilibrio tra la riflessione filosofica sull'invadenza dei mezzi di sorveglianza nel mondo contemporaneo e sull'intelligenza artificiale, e quello fra azione e divertimento.

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"Azione" e "divertimento" erano parole un tempo associate a Sons of Anarchy, quando la violenza per la violenza poteva avere un senso. La violenza gratuita per la violenza gratuita è invece un baratto dal quale nessuno sembra guadagnare niente. E se aggiungiamo che, nonostante alcune scene memorabili, SoA si è un po' perduto fra episodi interminabili, montage musicali estemporanei e storyline forzate quando non del tutto improvvisate, è difficile dire cosa sia diventato: forse, uno show surreale che assomiglia a un film d'exploitation senza però la paradossale brillantezza che hanno le rivisitazioni contemporanee del genere.

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Così, se uno volesse purgarsi di tutto questo nonsense, potrebbe guardare per esempio Cosmos: A Spacetime Odissey, update di un vecchio documentario di Carl Sagan, condotto per noi dall'astrofisico Neil deGrasse Tyson. Dopo averlo fatto, saprete che quando si addenseranno nuvole verdi in cielo non starà arrivando il Diluvio ma significherà che la Terra si sta trasformando in Venere, che un tempo era come la Terra e adesso è un posto abbastanza inabitabile. Cosmos è un inno alla conoscenza, alla scienza e all'evoluzionismo. Anche se talvolta un po' troppo idealista e romantico, Cosmos trasforma la storia delle grandi rivoluzioni scientifiche in un thriller avvincente e istruttivo che ha come protagonisti la curiosità, il metodo scientifico e la tenacia dell'intelligenza di fronte all'ignoranza e all'oscurantismo. Ogni episodio è costituito da una storia autoconclusiva che, tuttavia, è solo un tassello in un disegno più ampio nel quale siamo noi esseri umani a essere solo un tassello. E' la scienza al suo meglio, quando ci ricorda che la scala della nostra esistenza, sia spaziale sia temporale, è infinitesimale, e che, visto che siamo quasi nulla, forse dovremmo anche smettere di essere così sprezzanti e arroganti.

Insieme a Cosmos (e ai vecchi Frozen Planet e Planet Earth), Life Story è una celebrazione della vita sulla Terra e una sottile critica alla violenza con la quale trattiamo il nostro pianeta. In particolare, Life Story ci ricorda che le difficoltà che abbiamo superato per arrivare dove siamo, così come quelle che molti altri esseri affrontano ogni giorno, sono la nostra unica eredità e ricchezza. Immagini spettacolari e il racconto di David Attenborough sono sempre una combinazione irresistibile. (Nota: i primi 20 minuti del primo episodio sono magnifici e tormentosi. Bonus: alla fine di ogni episodio c'è una coda che mostra le tecniche documentaristiche usate per le riprese.)

Anche se può sembrare fuori luogo in compagnia di Cosmos e Life Story, Last Week Tonight With John Oliver è al posto giusto. Oltre a essere non-fiction, lo show di John Oliver riporta le notizie con spirito documentario e neutrale, lasciando che la comicità emerga da sola (o al massimo con un piccolo aiuto) dalla inarrestabile stupidità di politici, giornalisti e opinionisti. Last Week Tonight non è satira ma vera e propria informazione, e il tono mai sdegnoso o irritato o fintamente indignato di John Oliver eleva il suo show al di sopra di tutti gli innumerevoli tentativi, anche nostrani, di ridicolizzare gli eccessi della politica e mostrarne le ingiustizie.

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Tornando alla fiction, Mad Men, The Americans e Masters of Sex guidano la fila dei cable drama classici, mentre tra i nuovi show ancora debrandizzati, e dunque senza un chiaro genere, spiccano Orange is the New Black (Netflix, alla seconda stagione), Rectify (Sundance TV, seconda stagione) e Transparent (Amazon).

La prima metà della settima stagione di Mad Men è nettamente superiore all'intera sesta stagione e riporta lo show di Matthew Weiner agli apici della TV con i tipici episodi tematici che poi vanno a costituire la trama dell'intera annata. Le mie recensioni le trovate qui.

The Americans e Masters of Sex adottano una strategia narrativa simile e, anche se in superficie potrebbero sembrare delle raffinate soap opera (poiché mostrano quasi esclusivamente i personaggi in conflitto fra loro), in realtà stanno mostrando personaggi in cui tutti i conflitti politici e sociali sono interiorizzati al punto dell'identificazione. La Guerra Fredda in The Americans e la liberazione sessuale in Masters of Sex non sono solo il contesto della storia ma proprio la storia che si fa attraverso i quattro personaggi principali, a cui gli eccellenti se non straordinari Keri Russel, Matthew Rhys, Lizzy Caplan e Michael Sheen danno vita.

Anche Orange is the New Black e Rectify sembrano condividere un destino simile. Nelle loro seconde stagioni non estendono lo scopo della storia quanto piuttosto la approfondiscono aggiungendo alcuni nuovi personaggi o esplorando più intimimante quelli vecchi. Sono studi di umanità che non sembrano avere un preciso fine al di là di farci attraversare e sentire la meraviglia, l'assurdità, la colpa, la gioia, insomma la complessità delle vite altrui.

Parallelamente, Transparent fa quasi la stessa cosa mostrando come il cambiamento radicale di un individuo possa pervadere tutti i suoi familiari alla stregua di un lutto. Transparent non è solo una bellissima storia sull'identità sessuale ma una storia sulle catastrofi dell'identità in generale, sul cambiamento e sulla difficoltà o sull'impossibilità di cambiare. Talvolta un po' lento, lo show scritto da Jill Soloway è interpretato da un Jeffrey Tambor in stato di grazia.

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Il resto (compreso il pasticciato The Leftovers) è in mezzo, in un mezzo che sta molto più in basso del solito e che, come sempre, è il regno dei gusti personali, delle preferenze e dei piaceri colpevoli. Da questo mezzo voglio solo pescare Parenthood, perché è difficile parlare di sentimenti senza sentimentalismo, e perché i Braverman sono Gryffindor. Al di là del mezzo, invece, voglio citare Arvingerne o The Legacy, uno show danese che ha un pilot eccezionale ma di cui, per ora, ho visto solo questo.

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