domenica 29 novembre 2015

TV: 2015

Quando il pudore — o il livore — prende il sopravvento, la Golden Age della TV diventa "peak TV", cioè quell'età in cui c'è troppo da guardare ma mediamente è tutto mediocre. Come le merendine del Mulino Bianco, la TV ci ha fidelizzati negli anni '90 con roba non sempre genuina ma gustosa, molto meglio di quello che c'era sugli scaffali negli anni '70 e '80. Poi ha fatto quello che fa sempre il Mulino Bianco: dopo un paio di mesi le brioscine griffate hanno lo stesso sapore di quelle a marca generica.



Dovremmo pensare alla Golden Age televisiva come attuazione del sistema dell'intrattenimento più raffinato dell'antichità, il teatro tragico ateniese, solo che invece dei grandi tragediografi la TV ha grandi network che competono in Dionisie perpetue, mentre la misura estetica non è più determinata dal genio dell'autore ma dai valori produttivi, cioè dalla macchina organizzativa che rende possibile l'esistenza di uno show: in televisione non è bello ciò che è bello ma ciò che è ben fatto. Ovviamente, ci sono alcune eccezioni.

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MAD MEN

Mad Men se ne va con una gloriosa intuizione pubblicitaria: l'unica nostalgia possibile è per i sentimenti che non abbiamo mai avuto. La nostalgia è un sentimento di tutti i sentimenti, il dolore per una ferita che non si chiuderà mai, la mancanza di qualcosa che non sapevamo ci mancasse. E' per questo che Omero non avrebbe mai potuto inventare la parola (inventata alla fine del seicento da uno studente svizzero di medicina, Johannes Hofer): Odisseo desidera solo tornare a casa, può essere nostimos o apheileto nostimon emar, uno che è tornato o uno che è stato privato del giorno del ritorno; Don Draper desidera solo allontanarsi il più possibile da qualsiasi cosa. Per Odisseo l'unico modo per avvicinarsi alle cose è percorrere la distanza che lo separa da esse, per Don Draper è andare nell'altra direzione perché per Don (e per noi) la nostalgia, come nella famosa scena del Carousel, è in realtà una nostalgia che può avere nostalgia solo di se stessa, una lontananza vicina. Come Don Draper, la TV guarda lo slideshow della sua passata grandezza e sente ardere la ferita di una bellezza irraggiungibile, irripetibile: l'unico modo per essere stati grandi è farsi piccoli.

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SHOW ME A HERO

Se il più grande show della storia è The Wire, allora David Simon è colpevole di tutta la mediocrità che è venuta dopo. Il peccato di ogni bellezza — e di esserne all'altezza — è rimpicciolire tutto il resto.

Quando Aristotele parla della tragedia, dice che "è imitazione non di uomini ma di azioni e di un’esistenza, e dunque non è che i personaggi agiscono per rappresentare i caratteri, ma a causa delle azioni includono anche i caratteri, cosicché le azioni e il racconto costituiscono il fine nella tragedia". David Simon è l'unico scrittore tragico in TV e l'unico, dunque, che trascende regolarmente il medium. E' per questo che Show Me a Hero è il miglior show dell'anno: non imita se stesso o il suo autore (come Shondaland), non imita altri show o altri racconti o altri media ma la storia, fra l'altro storica, di uomini e donne le cui esistenze — e non potrebbe essere altrimenti — sono circoscritte dalle loro azioni.

Come The Wire, la storia di Yonkers è un mito americano (il mito di Wasicsko) raccontato sotto forma di tragedia. E' la storia di Giobbe senza lieto fine (o con un lieto fine in cui Giobbe è appena uscito di scena) e, come sempre nella poetica di Simon, è anche la storia di una città — di molte città — e dei suoi abitanti, che fanno da coro tragico e frammentata coscienza degli eventi.

Se non vi è chiaro che la segregazione urbana (e quella geopolitica) sono due dei grandi mali del secolo, guardare qualsiasi cosa scritta da David Simon, e magari cominciare dal più accessibile Show Me a Hero, sembra una buona idea.

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THE LEFTOVERS

Se David Simon è uno dei migliori scrittori contemporanei al di là di qualsiasi medium, l'incarnazione per eccellenza dello scrittore televisivo è Damon Lindelof, anzi: Damon Lindelof, ma chiamiamolo Dáimon, è la TV. Infatti, finché The Leftovers ha ricalcato il contenuto del libro un po' slavato di Tom Perrotta (cioè l'anno scorso), lo show ha boccheggiato. Ma date carta bianca a Lindelof e se non verrà fuori Lost potrebbe uscire un'astrazione così intensa che magari cominci a dubitare della concretezza del tuo mondo.

Il superpotere della TV è sempre stato rendere verosimile l'inverosimile, qualcosa che riesce benissimo ai reality e alle news. Il subpotere dello spettatore è decostruire il verosimile per trovarci l'inverosimile e poi affondare nella delusione, imprecare e magari abbandonare, che so, The Walking Dead perché, per esempio, non si sa come abbia fatto Glenn a sopravvivere per tre settimane sotto a un cassonetto senza il nome nei titoli di testa. Il fatto che qualche abitante di Realtandia abbia effettivamente provato a infilarsi sotto a un cassonetto per testare la possibilità di quella scena è la dimostrazione che Dáimon aveva già capito tutto fin dai tempi di Lost: non devi mai dare risposte in televisione ma inventarti sempre nuove domande.

Nonostante i traguardi di Simon, la TV è un medium essenzialmente drammatico in cui le azioni sono in genere dettate dal carattere dei personaggi, molto spesso indipendentemente dal fatto che questi posseggano o meno una regione interiore. La prima stagione di The Leftovers potrebbe essere ridotta a una miniserie di due ore dopo aver separato goccia a goccia la narrativa di Perrotta e la TV di Lindelof. Così distillata, sarebbe una premessa perfetta per la seconda stagione che, al contrario, si potrebbe diluire in eterno perché non c'è veramente nulla di impossibile negli universi di Dáimon Lindelof. Come in Lost, la traccia delle azioni si disfa sotto alla risacca dei personaggi e con questo moto, perpendicolare a quello del tragico, The Leftovers produce la stessa serialità emotiva che caratterizza la TV al culmine della sua essenza, quando trasmette la storia in diretta, solo che lo fa a un livello infinitamente superiore, sublime. The Leftovers è l'empireo della segregazione spirituale.

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RECTIFY

Srevotfel, no, non è elfico, anche se potrebbe, ma un'altra parola per dire Rectify, che è il viceversa di The Leftovers. Spinta dalla forza centrifuga della TV generica, la bellezza si posiziona agli estremi dell'universo televisivo, qui nella quasi totale assenza di movimento: tutte le azioni sono state, in Rectify, e i personaggi stanno solo per essere, il presente è un attimo protratto di riflessione sull'irreversibilità della vita.

Rectify è la decostruzione di un breve istante tra due storie, una, forse, di ingiustizia e una, forse, di redenzione, solo che il senso di queste storie, persino la loro realtà, non fa che sfuggirci. E' TV rarefatta, senza domande e senza risposte, che racconta quelli che per altri show sarebbero solo tempi morti o per un TG un giorno senza notizie. Rectify sarà anche una storia a bassa densità ma ha l'intensità e la potenza espressiva di una poesia che leggi e rileggi.

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MR. ROBOT

Senza Giacchino, Lindelof ha preso Where Is My Mind dei Pixies e l'ha fatta diventare il tema di The Leftovers, solo che è arrivato con un attimo di ritardo, non tanto su Fight Club, che ormai si trova nel passato remoto della cultura pop, ma sull'eccezionale Mr. Robot.

La tentazione di ridurre Mr. Robot alla sua trama e caratterizzarlo come l'enfant terrible (o il Noam Chomsky) della TV che attacca le grandi corporazioni e la segregazione economica è irresistibile ma è anche la via più breve per cadere nella stessa dissociazione che circonda il protagonista — a sua volta dissociato — Elliot.

Pensate all'analogia della caverna di Platone, gli schiavi liberati dalle catene e dallo spettacolo di ombre, perché siamo così sicuri che uscendo dalla caverna non verranno colti da un attacco di isteria epidemica? Platone è convinto che la verità sia contagiosa, un risveglio dei sensi a macchia d'olio come quello rappresentato in The Matrix. Dopo un attimo di spaesamento la zuppa di proteine è comunque meglio di una fiorentina con Mr. Smith. Ma se l'istmo tra illusione e realtà non fosse così stabile, se la coscienza fosse incapace di adattarsi alla verità, non vivremmo, come Elliot, in uno stato di perenne dissociazione e disturbo di conversione? Uno dei tipici sintomi del disturbo di conversione è la cecità psicosomatica in seguito a un evento traumatico. Se quell'evento fosse il trauma della scoperta della verità o della realtà, scegliete voi, le sue conseguenze non respingerebbero proprio quella scoperta? Non è che, forse, il mondo è indifferente alla realtà proprio perché la realtà l'ha vista in faccia, e non perché la ignora?

Questa verità, se credete come Elliot che ci sia questa verità, se siete abbastanza paranoici da credere che tutti facciano finta di niente, questa è la cosa davvero sconvolgente fuori dalla caverna: la locanda di Mauthausen di fianco al campo piena di villani sorridenti col boccale in mano.

Se hai visto la "matrice", e forse tutti l'abbiamo vista, puoi solo misconoscere o impazzire, soffrire in silenzio o soffrire con la voce di Elliot fuori campo che poi è un'allucinazione uditiva dello spettatore. Puoi anche essere Tyrrel, se vuoi, lo psicopatico che voleva essere sociopatico, ma non è che avrai vita molto più facile.

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HANNIBAL

Come Mr. Robot, anzi prima di Mr. Robot, Hannibal rende la realtà un campo di battaglia non per le opinioni ma per le sensazioni, una quarta dimensione palatina nella quale la bellezza fa salivare, l'amore è un crampo allo stomaco e l'ingiustizia un reflusso. Arrivando al capitolo di Red Dragon — e purtroppo finendo qui — Bryan Fuller raggiunge anche una maturità estetica che la TV non vedeva dai tempi di Twin Peaks, TV tangibile che ti senti addosso e non è esattamente piacevole come le carezze dei Quantico e i bacini dei Soaper Heroes.

Hannibal è un castello mentale nel quale sono imprigionati tutti i personaggi, una storia d'amore estrema tra noi e quell'Altro radicale che vuole goderci digerendoci. Mads Mikkelsen incarna un Hannibal che fa sembrare quello di Anthony Hopkins una bestia senza eleganza: è il punto di contatto fra omicidio e seduzione, tra passione e digestione.

Per eterogenesi dei fini, il finale di stagione (e di serie) è perfetto. Bedelia serve la sua gamba su un tavolo apparecchiato per due. Hannibal non si vede, anche se Fuller ha detto che in un'eventuale quinta stagione sarebbe stato lì, di certo noi non lo vediamo e la sensazione è di perduto amore, di una mutilazione così profonda che fa sembrare impossibile, insopportabile, una vita senza mostri.

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UNREAL

Che l'universo sia un ologramma è l'unica ipotesi, così pare, che potrebbe accordare le equazioni della relatività, della fisica quantistica e la teoria delle stringhe. Il nostro universo a tre, quattro, cinque, undici dimensioni non sarebbe altro che la proiezione multidimensionale di una superficie bidimensionale. Unreal è un esperimento per trasformare esseri tridimensionali in personaggi della superficie bidimensionale più diffusa, così pare, nell'universo: la TV. E' un processo violento come la cucina di Hannibal, fatto di mutilazioni e banchetti, un tritacarne spirituale che potrebbe essere simile a quello che ci autoinfliggiamo quando diventiamo personaggi di Facebook o Instagram. Il problema è che non abbiamo un sistema digerente per la psiche, e la storia di Rachel, la cuoca di Unreal, è quella di una lunga, poderosa indigestione.

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LOUIE

La scena iniziale di A La Carte o quella in The Road Part 2 in cui Louie cerca di defecare nella cassetta del water mentre un collega vomita nella tazza o l'incubo di Untitled o Louie che fa partorire una madre surrogato in grande stile o, in pratica, quasi tutte le scene di tutti gli otto episodi della quinta stagione: Louis C.K. è il più grande comico contemporaneo.

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THE KNICK

Thackery modernizza il consumo di cocaina inventando la sniffata ma, nel frattempo, è alla ricerca dell'origine di ogni dipendenza. Il fatto è che non abbiamo mai trovato niente infilando una sonda nel cervello tranne l'abisso della nostra ignoranza, e l'unico modo sicuro per liberarsi di tutte le dipendenze non è una lobotomia ma una sana disciplina ascetica, anche se a questa conclusione ci sono arrivati solo Gallinger, il personaggio più razzista dello show, e la Chiesa, il personaggio più morboso dello show.

The Knick è una storia di dipendenze, dalla droga, alcol, prostituzione, sesso, gioco d'azzardo e, soprattutto, dal denaro. E' la fotografia di un'umanità alla deriva nella cura, nella scienza e nel profitto, spesso indistinguibili fra loro. E' anche la fotografia del nostro mondo, invecchiata quel tanto per farla digerire a chi non ci avrebbe creduto.

La penna di Jack Amiel e Michael Begler è finalmente all'altezza della regia (e fotografia e montaggio) incomparabili di Soderbergh, e così The Knick ha già scavato le fondamenta per diventare uno dei più grandi show della storia.

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IL RESTO

Di questi tempi la maggior parte della TV è soap e la parola "drama" è solo un costume che molti show indossano per aumentare il tiraggio. Anche show che avevano dimostrato una certa vocazione drammatica si sono ritirati in una dimensione piena di bolle. I personaggi hanno sovente psicologie infantili, elementari, sviluppate giusto in tempo per la prossima scena, mentre l'azione, quando c'è azione, segue la struttura formulaica dei conflitti fra desideri diametralmente opposti, apparentemente all'infinito.


The Americans e Masters of Sex non hanno particolari guizzi espressivi e, a parte il saltuario eccesso drammatico (il dente di Elizabeth, una fenomenale analogia di Bill durante un discorso sull'amore), procedono composti su precisi binari narrativi. Meglio The Americans di Masters of Sex, anche se quest'anno entrambi sembrano più interessati alle relazioni coniugali che al contesto storico. Halt and Catch Fire è migliorato molto ma ora sappiamo che fin dall'inizio avremmo potuto fare a meno di Joe e Gordon e, suo malgrado, che lo show continuerà con questi due pesi morti. Person of Interest (la prossima sarà l'ultima stagione) è ancora l'unico show con il piglio tecnologico e l'ultima fantascienza in TV che offra uno straccio di riflessione filosofica. The Good Wife è okay ma non sa più dove andare e, forse, sta soffrendo la tipica sindrome d'abbandono dello showrunner (i King sono ancora nominalmente showrunner ma già impegnati sul prossimo progetto). Last Week Tonight With John Oliver è una sicurezza, mentre Empire, che era intrattenimento allo stato puro, ha qualche difficoltà a mantenere la tensione narrativa dell'anno scorso dopo il midseason finale non ha più molto senso. The Jinx è vivamente consigliato. Lo stesso vale per BoJack HorsemanOrange Is The New Black, American CrimeTransparent. Tra le commedie solo il notevole You're the Worst e Veep mi hanno convinto, mentre Master of None non mi è piaciuto, l'ho trovato petulante e forzato come il personaggio di Ansari in Parks & Recreation (che, come il buon vecchio Parenthood e come l'ottimo Justified si è concluso quest'anno). Insomma, Master of None è solo un sottoprodotto spiegazionista dell'epoca di Louie. Anche Casual e Togetherness provengono dall'universo narrativo inaugurato da Louie ma sono molto meglio, e Togetherness sarebbe perfetto se Steve Zissis e Amanda Peet avessero tutta la scena. The Blacklist è una mia passione, per colpa di James Spader ma anche perché i casi della settimana sono esperimenti mentali molto contemporanei e quasi sempre interessanti, e poi perché i personaggi sono cresciuti in stile Alias, soprattutto Tom Keen. CW ha preso fuoco negli ultimi anni con Flash e Arrow (adesso è meglio il primo), Jane The Virgin (un po' troppo ripetitivo), The 100, il bizzarro ma interessante Crazy Ex Girlfriend e iZombie, quest'ultimo l'unico erede di Veronica Mars. Considerato che Supergirl è un prodotto di Berlanti (come Flash, Arrow e l'imminente Legends of Tomorrow), si capisce benissimo che il contesto produttivo fa tutta la differenza: Flash e Arrow vanno in onda su CW e sono show divertenti e ben strutturati, Supergirl va in onda su CBS ed è un prodotto infantile con una premessa ridicola e un femminismo da Instagram. Daredevil e Jessica Jones di Netflix sono stati definiti da qualcuno supereroi per adulti, cioè supereroi di cui un adulto non si vergogna perché ci sono sesso e un'atmosfera cupa. Purtroppo Daredevil l'avevo già visto con un altro nome, The Raid: Redemption, ivi compresa, in meglio, la famosa scena del combattimento nel corridoio. Jessica Jones è un'accozzaglia di temi con rilevanza giornalistica supportati da una cinematografia che segue la sintassi del fumetto ignorando che in video certe inquadrature significano tutt'altro. Ha qualche buon momento ma alla resa dei conti l'unica cosa interessante sono, a seconda dei gusti, la schiena infinita di Krysten Ritter o i pettorali di Mike Colter. In più, i villain di questi due show, Fisk e Kilgrave, sono incubi per chi ha paura di sognare duro. Elementary, Brooklyn Nine Nine e New Girl si sono persi da qualche parte. The Walking Dead e Game Thrones vanno per la loro strada, il primo sempre meglio quando segue il fumetto di Kirkman, il secondo che decolla non appena lascia i libri di Martin. The Man in the High Castle (sigh!), BloodlineManhattanFargo e Better Call Saul li trovo soporiferi, gli ultimi due variazioni stilistiche di un film e uno show che sono irraggiungibili. Fear the Walking Dead ha ancora tutto da dimostrare e, per ora, come gli show del paragrafo precedente e quasi tutta la TV del 2015, è prodotto meglio di quanto non sia scritto. Sul fronte europeo, la TV inglese ha fatto come sempre tutti i suoi compitini, per una volta senza fantasia. River e Jonathan Strange & Mr Norrel valgono la pena più per le interpretazioni che per le storie: Stellan Skasgard e Nicola Walker (protagonista anche del discreto ma prevedibile Unforgotten) sono stellari e lo stesso vale per Eddie Marsan e Bertie Carvel nella riduzione del libro, in realtà inadattabile, di Susanna Clarke. Humans, remake britannico dello svedese Akta manniskor, è al più mediocre, nettamente inferiore all'originale. Catastrophe è divertente ma è surclassato da You're the Worst proprio sul terreno dove gli inglesi sono in genere imbattibili: la spudoratezza. Il franco-inglese Spotless è carino, mentre il danese 1864, lento e massiccio, ricorda le produzioni storiche di HBO. Nella terza stagione dello svedese Broen mi manca troppo la dinamica Saga/Martin. La seconda stagione di Les Revenants non l'ho ancora vista e non dubito sarà eccezionale, mentre lo show dell'anno che-non-è-americano è Deutschland 83.

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