sabato 21 aprile 2018

THE GOOD FIGHT: IL RITORNO DEI KING

Ognuno è il protagonista della sua storia e una comparsa in quella degli altri. Lo dice Elsbeth Tascioni—una comparsa nella storia di Alicia Florrick in The Good Wife—a Diane, un'altra comparsa, o poco più, nella storia di Alicia. E' una linea di dialogo situazionale, relativa alla trama di un recente episodio di The Good Fight (scritto da Michelle e Robert King come The Good Wife ), ma anche apertamente autoreferenziale.

Come spesso accade agli spinoff, soprattutto a quelli destinati a una fine precoce, la prima stagione di The Good Fight aveva ricoperto un ruolo vicario, vivendo all'ombra dello show che l'aveva preceduta e trattando i suoi protagonisti—le comparse e i co-protagonisti di una volta—ancora come comparse e co-protagonisti. Poi, durante lo iato tra la prima e la seconda stagione, The Good Fight ha finalmente preso in mano il suo destino diventando qualcosa di originale e, soprattutto, qualcosa di grande come lo erano state le stagioni centrali di The Good Wife.



Ci sono show apertamente politici come Black-ish, che rifiuta in continuazione di sciogliere i tradizionali conflitti etnici e politici nella tradizionale retorica buonista delle tradizionali sit-com—o come The Fosters, che esprime spudortamente i suoi sentimenti su tutto ciò che non funziona negli Stati Uniti—o uno show come Black Lightning che ribalta completamente, ardentemente i rapporti di colore della TV americana; ma nessuno show, né questi tre né i pochi altri che non si sono arresi al blando generalismo di quest'epoca televisiva, nessuno riesce a danzare sulla cima del presente come The Good Fight e a farlo comicamente, satiricamente.

Lo slittamento di genere, da dramma leggermente insaponato a satira dell'epoca trumpiana (una resa a istinti già presenti in The Good Wife) è probabilmente la ragione principale del salto di qualità di The Good Fight, anche perché la drammatizzazione delle procedure legali e dell'inerente ingiustizia della giustizia era perfetta per l'epoca di Obama: nell'epoca di Trump l'unica cosa perfetta è una risata, magari quella di Diane.

Certo, la satira di The Good Fight non colpisce al cuore il capitalismo o l'ingiustizia (come p.e. aveva fatto la prima stagione di Mr. Robot), non è esattamente la satira che ci meritiamo e che, forse, nessun network manderebbe in onda, ma è abbastanza per riconnetterci un po' al principio di realtà.

Così, al plot sulla diseguaglianza dell'anno scorso, melodrammatico, ispirato vagamente a truffe finanziarie come quella di Maddof (e che forse avremmo trovato brillante qualche anno fa), The Good Fight oppone quest'anno più che un plot o un arco narrativo, un tessuto connettivo (o un'atmosfera se preferite) che rispecchia una società—gli USA sotto Trump—disinibita, permeata da varie forme di terrorismo domestico (le politiche governative, la caccia agli avvocati, la brutalità della polizia, l'attacco à la Breaking Bad con ricina, infine—e qui potrei sbagliarmi—un imminente subplot #MeToo che potrebbe coinvolgere il personaggio di Marissa).

In questo senso la differenza tra la stagione passata e quella corrente non è solo tonale ma sostanziale: invece di prendere di mira la diseguaglianza come concetto astratto, The Good Fight prende di mira—in un certo senso anche letteralmente—la concreta quotidianità dell'ingiustizia. E poco importa che Reddick, Boseman & Lockhart siano i meno peggio della scena legale di Chicago: anche loro, come gli altri avvocati della città, incarnano l'ingiuria di una giustizia che protegge il forte opprimendo il debole e che, alla resa dei conti, finisce per nutrire il risentimento delle fazioni più reazionarie della società (non è una sorpresa che le carte "exploding lawyers" siano vendute da un sito di estrema destra).

Come The Good Wife al suo meglio, anzi meglio di The Good Wife al suo meglio, The Good Fight è una spugna che assorbe l'attualità e la fa evaporare da episodi intensi e ironici che si gettano—anche visualmente—nelle classiche zone cieche della TV americana contemporanea, compresa la TV prodotta sotto al segno di Netflix, Hulu o Amazon. Non ha la potenza di Mad Men o The Wire che, esplorando fino al paradosso il sogno americano facevano quasi testa coda, ma in questo momento storico di ottusa saturazione della TV è uno dei pochissimi show che, oltre a intrattenere, fa pensare.

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