mercoledì 25 febbraio 2015

AMERICAN GOLEM

In una versione della leggenda del Golem attribuita da un manoscritto del XIII secolo al tanna Judah ben Bathyra, il profeta Geremia e il figlio Sira, dopo averlo costruito inscrivono sulla fronte del Golem le parole YHWH Elohim Emeth, Dio è Verità. La creatura, che per qualche ragione ha in mano un coltello, raschia la prima lettera della parola Emeth, un'aleph, e la frase redatta, YHWH Elohim meth, adesso significa Dio è morto. Nelle altre versioni della leggenda, compresa quella più famosa divulgata da Jakob Grimm, Geremia scrive sulla fronte del Golem solo la parola Emeth la quale, per ragioni che qui è inutile approfondire, funziona come una specie di interruttore magico che accende il Golem. In quella versione e nelle altre simili, cioè quasi tutte, non è il Golem ma chi lo crea a grattare via l'aleph trasformando la parola "verità" in "morte", che poi è l'unico modo per spegnere la creatura, cioè per distruggerla quando il creatore ne perde il controllo.

Der Golem, Paul Wegener, 1920

E' dunque un caso più unico che raro quello di un Golem che, come nella variante di ben Bathyra, non solo compie un'azione assolutamente libera non appena viene creato, ma sopravvive alla magia della parola e subito dopo mostra di saper parlare rispondendo al creatore che gli chiede perché mai abbia fatto un gesto tanto blasfemo... Dice il Golem: c'è un architetto che conosce il mestiere alla perfezione, nessuno lo eguaglia. Arrivano due che convincono l'architetto di essere all'altezza del suo genio. L'architetto ci crede e insegna il mestiere ai due che, ingrati, lo abbandonano e si vendono sul mercato a metà prezzo. Da quel momento, la gente si rivolge solo ai due ingrati, dimenticandosi completamente del primo architetto e arrivando a pensare che siano stati loro e non l'altro a inventare l'architettura...

Geremia capisce l'antifona e distrugge il Golem. E poi dice: davvero, uno dovrebbe studiarsi 'ste cose giusto per capire come funzionano, e basta. (La storia è riportata da Gershom Scholem in La Kabbalah e il suo simbolismo, 1980, Einaudi.)


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Pulgasari è un film nordcoreano del 1985 reminescente della leggenda del Golem. Qualcuno ne avrà sentito parlare nelle ultime settimane ma, nel caso non abbiate la minima idea di cosa stia dicendo, ecco il "gossip" che circonda questo film prodotto (e in parte scritto) da Kim Jong-il (il papà dell'attuale leader nordcoreano Kim Jong-un).

Pulgasari, Shin Sang-ok, 1985

Nel 1978, Shin Sang-ok, il più famoso regista sudcoreano, è in disgrazia. Dopo aver girato una sessantina di film, è vittima, come molti colleghi, della censura sempre più soffocante del regime di Park Chung-hee (che verrà assassinato l'anno successivo). Come se non bastasse, di recente Shin Sang-ok ha anche divorziato dall'attrice Choi Eun-hee, la Meryl Streep sudcoreana misteriosamente scomparsa durante un viaggio a Hong Kong. Qui la trama si infittisce... Shin Sang-ok vola a Hong Kong, allora una colonia inglese, per scoprire che fine abbia fatto l'ex moglie e viene rapito, anche lui, dai nordcoreani.

Con le debite differenze, è un po' come se l'Unione Sovietica avesse rapito, che so, Orson Welles e Rita Haywort negli anni '50. Solo che l'Unione Sovietica, oltre a un certo orgoglio nazionale, aveva anche una solida tradizione cinematografica e una macchina propagandistica suprema, mentre il grande riformatore del cinema e della propaganda nordcoreani, il "caro leader" Kim-Jong-il, figlio del "grande leader" Kim Sung-il, aveva assolutamente bisogno di un regista e di un'attrice decenti per sviluppare le sue grandi passioni: la celluloide e il controllo delle masse.

Kim Jong-il sul set di pulgasari

Shin Sang-ok, che tenta subito la fuga, viene imprigionato per quattro anni e, quando lo liberano, viene convocato di fronte a Kim Jong-il insieme alla ex moglie Choi che, ormai, credeva morta. E' a questo punto che il "caro leader" rivela il suo piano diabolico e, probabilmente, irrealizzabile: fare film rivoluzionari che però non siano noiosi e ripetitivi.

E' assurdo che nessuno abbia ancora fatto un film su questa storia (lo stanno facendo, credo) visto che ha dettagli incredibili come, per esempio, il fatto che Choi registrò 45 minuti di quella conversazione con un mangiacassette comprato allo spaccio dell'elite nordcoreana e trafugato, a rischio della vita, nel palazzo del "caro leader". (Un riassunto di questa vicenda, raccontata da Shin in persona in un suo memoir, lo trovate in questo articolo del Guardian.) Sia come sia, da quel giorno in poi, Shin girerà sette film per Kim Jong-il, l'ultimo dei quali, concluso poco prima della liberatoria fuga a Vienna che lo riportò in Occidente, è proprio Pulgasari.

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Pulgasari è un kaiju socialista e uno dei film più noiosi che vedrete, un misto di mostri, "epici" combattimenti e danze folcloristiche. Ambientato nel XIV secolo, il film dipinge i conflitti fra contadini e monarchi dell'epoca. Vessati dai boiardi della dinastia Goryeo, i contadini di un piccolo villaggio vorrebbero ribellarsi ma non ne hanno la forza. Prima di morire, il patriarca del villaggio (un vecchio fabbro) modella con pasta di riso una statuina del mitologico mostro Pulgasari (o Bulgasari) perché protegga i contadini dai boiardi. Come nella leggenda originale, il Pulgasari prende vita e comincia a crescere nutrendosi di ferro, cresce e poi cresce finché non diventa così grande e imbattibile ("Pulgasari" significa in effetti "non uccidibile") che da solo può sconfiggere l'intero esercito monarchico.

Se pensavate che i contadini rappresentassero i proletari, i monarchi i capitalisti e il Pulgasari il socialismo, sappiate che l'analogia a questo punto vacilla perché il mostro, dopo aver mangiato tutte le spade dei malvagi Goryeo, si ribella ai suoi creatori, i contadini, e comincia a nutrirsi dei loro strumenti di lavoro.

Shin Sang-ok

E' un retaggio della leggenda originale, nella quale il Pulgasari era simbolo dell'avidità e dell'immoralità degli uomini ma, se la cosa lì ha senso, qui è solo l'inizio dell'ambiguità che caratterizza il finale del film: il Pulgasari sembra inarrestabile finché l'eroina del film non decide di sacrificarsi e si nasconde all'interno di una campana che il mostro divora. E' un crescendo surreale. Nella bocca del Pulgasari, l'eroina prega che la creatura lasci in pace i contadini e, per magia, il Pulgasari si pietrifica e cade in frantumi. Non è finita. Dalle polveri del mostro emerge un nuovo piccolo Pulgasari che, con un bizzarro raggio di energia blu, resuscita l'eroina e poi se ne va (inspiegabilmente) nel tramonto...

Secondo la visione ufficiale, il Pulgasari sarebbe il simbolo del capitalismo, e ciò nonostante tutte le contraddizioni teoretiche della trama (p.e. è un "proletario" che forgia inizialmente il Pulgasari, il mostro "capitalista" alla fine rinasce, ecc.), ma in realtà il film è piuttosto confuso, forse volutamente confuso, e il Pulgasari si presta a rappresentare il simbolo di qualsiasi potere che sfugge al controllo del proprio inventore, non ultimo lo stesso socialismo di Kim Sung-il che, invece di proteggere il popolo, lo fece vivere nella miseria.

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American Sniper, Clint Eastwood, 2014

Un altro film dal finale confuso o, forse, un film interamente confuso è American Sniper di Clint Eastwood, biografia semi-romanzata del SEAL Chris Kyle morto nel 2013 dopo aver ucciso (forse) tra i 150 e i 250 "nemici combattenti". In American Sniper, un mostro mitologico chiamato "Cecchino Infallibile" viene modellato con pasta di U.S.A. per andare in Iraq e proteggere le truppe sparando ai passanti.

Ora, tralasciando per un attimo il fatto che Eastwood o il suo sceneggiatore Jason Hall (Devon MacLeish in Buffy) abbiano completamente omesso l'autoesaltazione, il fanatismo e la mitomania di Kyle, come può un film che parla di una delle più inquietanti pratiche di morte — il cecchinaggio — ignorare quasi completamente sia le premesse psicologiche sia le conseguenze dell'uccidere?

American Sniper, Clint Eastwood, 2014

Essendo Clint Eastwood un regista straordinario, è ampiamente consapevole delle caratteristiche del cecchinaggio. Una delle prime inquadrature del film mostra Kyle appostato su un tetto per proteggere un convoglio di soldati. E' un cane pastore, i soldati sono le pecore e un bambino iracheno è il lupo che si avvicina con una granata.

Come in Pulgasari, le metafore vacillano non appena le applichiamo alla realtà (del film), ma questa è la visione ufficiale o almeno, come impararemo nelle scene successive, la visione ufficiale del padre di Kyle e, per contagio, dello stesso Kyle; e, comunque sia, la cosa che conta qui è una serie di magistrali inquadrature dell'occhio di Kyle attraverso la lente del mirino del fucile alternate a quelle delle imminenti vittime: un bambino e la madre, entrambi terroristi.

American Sniper, Clint Eastwood, 2014

Eastwood, dunque, sa che il cecchino ha un rapporto speciale con la sua vittima: duplice, per la precisione. Da un lato è distante, meccanicamente e psicologicamente, e può disumanizzare la preda, d'altra parte lo stesso strumento che gli permette di mantenere la distanza è anche ciò che lo avvicina, che lo mette a contatto con l'umanità della preda (pensate all'analoga — ma diametralmente opposta — scena del cervo nel Cacciatore di Michael Cimino).

E' per questa ragione che i SEAL e gli altri corpi speciali seguono un addestramento particolare: a differenza dei comuni soldati che possono consciamente o inconsciamente sbagliare mira, anzi che, come spiega Dave Grossman in On Killing, spesso (almeno prima dei moderni addestramenti) sbagliano intenzionalmente mira, il SEAL, e il cecchino a maggior ragione, non può permettersi questo "lusso", deve tendere all'infallibilità, deve imparare a disumanizzare completamente il suo bersaglio in modo da aumentare il numero di uccisioni.

(E' ironico che una delle mosse per rendere più efficaci militari e poliziotti sia stata, in fase di addestramento, quella di sostituire i vecchi bersagli circolari con sagome dalla forma umana: è più facile diventare disumani sparando a bersagli che sembrano umani piuttosto che a un bersaglio neutro.)

The Deer Hunter, Michael Cimino, 1978

Il problema (è un problema?) è che secondo Eastwood e Hall, e prima ancora secondo lo stesso Chris Kyle, Chris Kyle è nato (o cresciuto) così, con una distanza morale e psicologica che gli permette di mantenere un totale distacco mentre fa quello che fa, cioè uccidere.

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In questo senso, American Sniper, che è un po' il "Full Metal Jacket" di Eastwood, fallisce prima di tutto nel mostrarci da dove viene un killer, foss'anche uno che è nato così. Ci sono brevi istanti in cui potrebbe venire il dubbio che Eastwood abbia messo insieme un film volutamente ambiguo — un Pulgasari — per criticare la guerra senza criticare l'invasione degli Stati Uniti in Iraq ma è difficile associare questo pensiero alla totale superficialità con cui il personaggio principale muta da cow boy in cecchino dopo aver visto le Twin Towers a pezzi in TV. Persino la fase dell'addestramento è trattata con superficialità, come un montage di scene rapsodiche che sembrano prese ora da Ufficiale e Gentiluomo ora da una gara di tiro al Club Mediterranee.

Full Metal Jacket, Stanley Kubrik, 1987

Insomma, dove Kubrik ci mostrava lo sforzo di un intero apparato bellico per insegnare al soldato la disumanità del nemico, nel processo distaccandolo dalla propria umanità, Eastwood ci offre un personaggio impacchettato in quattro luoghi comuni i cui tratti psicopatici, che in seguito al libro e al film sono emersi pubblicamente, vengono totalmente ignorati (p.e. Kyle pensava che i nemici fossero dei "selvaggi" e mai provò rimorso per le sue uccisioni, tranne il rimorso di averne uccisi troppo pochi di quei "selvaggi").

Ciò che ne risente sono sia la parte centrale del film sia il finale, e la fantastica regia nulla può di fronte a un viaggio attraverso l'insensatezza apologetica delle "sensate" uccisioni di Kyle che finisce in una sensatissima morte presentata come culmine dell'insensatezza. Kyle viene ucciso da un veterano che cercava di aiutare, dopo essersi accorto (più o meno) di essere lui stesso un veterano con stress post-traumatico. Tuttavia, la stessa superficialità del resto del film caratterizza anche la fine, che magari avrebbe potuto essere "Il Cacciatore" di Clint Eastwood, forse, magari, in un universo parallelo in cui gente che fissa televisori spenti e sente spari immaginari sta davvero soffrendo.

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Sarebbe bello se Eastwood ci avesse sottilmente, segretamente raccontato l'insensibilità, l'apatia e l'odio ai quali veniamo sacrificati in quest'epoca, tuttavia il messaggio è piuttosto chiaro e non è quello. L'analogia del cane pastore, Eastwood e Hall l'hanno presa paro paro dal libro che ho citato prima, On Killing, in un capitolo in cui Dave Grossman parla di quel 2% di psicopatici che fanno parte di ogni esercito e hanno una predisposizione all'omicidio. Fra questi, Grossman identifica una sottospecie di psicopatico, evidentemente ancor più raro, in quel tipo di soldato che ha la stessa predisposizione all'omicidio ma anche un senso di responsabilità militare e civile in virtù del quale si accolla l'onere della maggior parte delle uccisioni, soprattutto di quelle, diciamo così, meno nobili. Chiaramente, per Hall/Eastwood, Chris Kyle corrisponde a questo tipo di soldato "social-sociopatico", nobile non in quanto combatte nobilmente ma in quanto protegge la nobiltà degli altri soldati facendosi carico dell'inevitabile lavoro sporco.

American Sniper, 2012

Se le cose stanno così, American Sniper non ha neanche la parvenza di film semi-oggettivo che i suoi autori usano per difenderlo, anche perché non serve il gossip su Chris Kyle per farne un personaggio quantomeno equivoco, basta spremere il suo libro e assaggiarne il fiele. E la scena iniziale ha tutt'altra misura rispetto a quella che il film vorrebbe farci bere se quel cecchino sul tetto, Chris Kyle, pensa che il bambino e la madre siano poco più che animali...

Insomma, American Sniper assomiglia molto a un prodotto di quell'apparato di pubbliche relazioni che, fatta qualche eccezione, è il giornalismo mondiale, soprattutto quando in discussione ci sono una guerra o il terrorismo.


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Infatti, come American Sniper, quasi tutto il giornalismo omette senza ritegno il contesto nel quale i nostri uccisori vengono messi al mondo, cresciuti, istruiti e infine trasformati in eroi, ma è sempre pronto a sottolineare la disumanità degli uccisori altrui.

A un certo punto del film, per esempio, si capisce bene che i lupi non sono i due "terroristi" che vediamo all'inizio, il bambino e la mamma armati di granata, ma certi non meglio identificati terroristi-bulli che tormentano le pecore del loro gregge (come dire che nei paesi Cristiani i pastori sono pastori mentre nei paesi Mussulmani sono i lupi a fare i pastori). E anche se in tutto il film non ci sono personaggi particolarmente complessi — neppure quello di Kyle — è chiaro che lupi e gregge, cioè animali, nella più elementare e manichea delle accezioni sono le uniche caratterizzazioni possibili dei nemici dell'Occidente.

American Sniper, Clint Eastwood, 2014

Considerato il fatto che le tecniche per controllare il gregge e disumanizzare particolari individui le abbiamo forgiate (e esportate) noi occidentali, e considerato il fatto che l'invasione dell'Iraq e tutte le azioni seguenti amplificano l'efficacia di queste tecniche, è chiaro che American Sniper fallisce non solo come film biografico ma anche come "character study", a meno che lo studio non sia quello di un automa nichilista, un soldato-robot che non ha bisogno di alcun addestramento perché è nato così, con un coltello in mano: un golem.

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L'argomento più interessante del libro di Grossman è basato su resoconi storici e, quando disponibili, sulle statistiche relative al numero di proiettili sparati rispetto al numero di vittime. In base a questi dati, la conlusione è che la maggior parte degli uomini avrebbero una predisposizione a non uccidere gli altri uomini. Solo in certi casi, cioè quando si creano determinate condizioni (per esempio un grosso trauma come le Twin Towers) il soldato normale, cioè il militare di leva, è disposto a uccidere senza compromessi... Il trauma però passa e l'unica cosa che rimane, se il seme è stato piantato e innaffiato regolarmente, è la distanza nei confronti del nemico, cioè quel meccanismo morale, psicologico e meccanico che permette ai nemici di uccidersi a vicenda.

La prima parte di Full Metal Jacket mostra come si crea questa distanza nel soldato soffermandosi soprattutto sul condizionamento psicologico dell'addestramento, cioè su tutto ciò che altri film come Ufficiale e Gentiluomo e American Sniper omettono. Joker e i suoi compagni da un lato imparano a contare l'uno sull'altro, dall'altro a odiare i vietnamiti prima ancora di affrontarli: lo scopo primario dell'addestramento cui sono soggetti non è solo la preparazione fisica ma, soprattutto, creare una distanza incolmabile fra loro stessi e un nemico disumanizzato.

Happy Birthday, Dear Jesus!

Da questo punto di vista, se Eastwood nel suo film fosse andato alla ricerca — sempre che sia possibile — di tutto ciò che prepara il terreno all'addestramento del soldato, di tutto ciò che nel mondo contemporaneo disumanizza il soldato ancor prima che diventi un soldato, forse American Sniper avrebbe potuto essere un film interessante. Così com'è, è un film vuoto, un involucro senz'anima come il soldato di cui racconta la storia.

Quel soldato, Chris Kyle — come Pulgasari o la stessa Corea del Nord — è un golem, e anche se non è più fra noi in carne e ossa, il suo fantasma in rivolta sarà sempre fra noi; sulla fronte l'incisione: l'uomo è morto.

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