Il Corriere della Sera non è un palco per Fabio Volo ma il banco degli imputati, e Fabio Volo vuole il suo "giorno in pretura". La prima frase della sua testimonianza (una testimonianza che —come vedremo—intende non tanto discolparlo quanto accusare chi lo incolpa) stabilisce subito una cosa: Fabio Volo è una persona perché, una volta, è stato riconosciuto da un'altra persona. Isolate il centro nevralgico della frase e ne avrete anche il significato: "una persona mi disse che io scrivo la vita". Già che c'è, Volo suggerisce che la vita di cui scrive, evidentemente quella vera, è quella di un passato non ben definito in cui la vita era forse più semplice, in cui l'odore leggermente nauseante (ma verace) dei broccoletti non era coperto dai profumi artificiali dell'Italia di oggi.
La
frase successiva si riferisce all'ambiguità di ciò che gli ha detto la persona
e non è solo un esercizio di falsa modestia, anzi non è affatto falsa modestia
ma la pietra angolare della strategia di difesa di Volo: mettiamo che tu
persona volessi offendermi; puoi dirmi quello che vuoi, puoi sminuirmi quanto
vuoi ma non ti rendi conto che, così facendo, non fai altro che confermare ciò
che sono. Insomma, Fabio Volo sale sul banco degli imputati (nessuno glielo aveva chiesto) e, prima di
articolare la sua difesa, fa quello che fanno spesso coi loro clienti gli avvocati dei telefilm: si offre come persona e come vittima. Si umanizza.