venerdì 26 ottobre 2012

LA TV DEL FUTURO (III): BIOTELEVISIONE

Come ho già detto, piuttosto che parlare di fine della televisione preferisco parlare di fine della storia della televisione. Alla fine di questa storia ne incomincia un'altra: quella di un nuovo mostro, la biotelevisione, un'esperienza identity-specif, forse debrandizzata, evenemenziale, fatta anche ma non solo di video on demand, programmazione reality oriented e talk show, non TV ma manco HBO, sinergetica più che sinergica, massive-mediale più che multimediale, nella quale gli spettatori saranno partigiani gassosi di fazioni diagonali.



Se immaginate la televisione attuale come un ecosistema, sarebbe quello di uno zoo, dove guardiani gentili in tute verdi e scritte bianche lanciano secchiate di sgombri ai pinguini e bistecche mastodontiche alle tigri. Siamo noi i pinguini e le tigri, prigionieri felici in playground artificiali, siano questi il finto Polo Nord in piastrelline Bisazza della CBS o la jungla in PVC di NBC (qual'è il network, NBC o PVC?). I visitatori dello zoo, quelli che pagano per lo spettacolo, sono gli inserzionisti e lo fanno per esser sicuri che la prossima volta noi non mangeremo lo sgombro qualsiasi del Capitano Stubing ma quello del Capitano Findus: il vero spettacolo, quello per pochi eletti, è il nostro portafogli che si svuota.

Lo spettatore attuale è un animale in cattività e se lo lasci libero non può sopravvivere tre giorni. Storicamente è stato catturato dall'esperienza panteistica della TV delle origini, quell'utopia comunitaria che teneva le famiglie italiane attaccate allo schermo posseduto dal demone d'importazione Mike Bongiorno o che raccoglieva quelle americane col cucchiaino mentre si scioglievano di fronte al perfetto ibrido drama/comedy, guerra/pacifismo che è stato M.A.S.H. (otto americani su dieci con un televisore videro il finale dello show nel 1983). Dopo quello c'è solo l'11/9, il serie's finale di uno show sottovalutato da tutti e che ha poi generato infiniti spin-off: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq, la guerra al terrore, il remake senza Lucas dell'attacco dei droni. Due televisioni diverse, dunque: una che metteva in scena il suo giubileo dopo aver democratizzato l'immaginario della democrazia e una alla ricerca di qualcosa che unisse, per riferirmi all'oggi, lo spettatore di Oprah, quello di Letterman, quello di CSI, quello di Mad Men, quello di Jersey Shore.

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La televisione, al suo tramonto, è ossessionata dalla ricerca dell'Infinite Jest wallaciano, dello spettacolo definitivo che nessun occhio può evitare, dell'intrattenimento finale e eterno. E' per questo, per esempio, che ci piace il "gesto infinito" alla fine dei Sopranos, perché rinvia al suo inizio rendendo rivedibile e rivivibile tutta la storia, facendola diventare una filastrocca a forma di otto come C'era una volta un re. E' lo stesso motivo per cui siamo rimasti ipnotizzati da Lost, l'unico vero tentativo di Infinite Jest nel mondo reale: lo abbiamo guardato sperando che non finisse mai, che potesse intrattenerci fino al giorno della morte, e poi i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri pronipoti e, in un futuro lontano, i nostri proto-tipi.

E' lo sforzo senile di controllare uno spettatore scalpitante, eccitato da touch screen e link intelligenti, che ha spinto la televisione verso strategie di biopolitica televisiva. La televisione classica è un ambiente statico per una popolazione mobile che ha bisogno di un punto di riferimento per l'identità, cosa che vale per l'americano medio che si trasferisce coast to coast o per il meridionale che migra nella ricca Milano degli anni '60. La TV è lì a ricordarci che ovunque sei, chiunque sei, fai parte dello stesso popolo: è un ideale mondo in cui convivono l'accento lombardo di Cochi e Renato, quello romano di Aldo Fabrizi, quello napoletano di De Filippo e il sublime neutro di Vittorio Gassman (è una lezione del nazismo, non fatevi illusioni.) Al contempo, la TV classica è uno strumento che il popolo può anche unirlo, un focolare che si accende sulla strage di Piazza Fontana o su quella di Bologna, sull'omicidio Moro, sulla storia di Alfredino e del pozzo artesiano, un amplificatore per quegli eventi traumatici che definiscono intere generazioni e le fanno sentire meno smarrite, meno sole, prove generali che fanno parte della storia di ogni provincia del mondo e che si realizzano compiutamente nell'attacco alle Torri Gemelle, il trauma globale della democrazia occidentale.

Quella televisione là, quella del passato, non ha bisogno di immaginare il suo popolo come un'entità biologica-demografica perché quello è un popolo costante e immobile (di fronte allo schermo), molto simile a quello odierno che, tuttavia, agli occhi dei network è assai più isterico o, in altre parole, semplicemente più propenso alla mobilità intra-mediale.

Ciò non significa che i network (broadcast, cable e pay tv) non abbiano negli ultimi tempi cambiato istintivamente direzione. I cable, in particolare HBO (it's Not TV!), hanno suggerito la strada: l'unico modo per affrontare la mobilità intra-mediale (cioè fra entità dello stesso medium) è il brand, ovvero un'offerta genre-specific per la quale lo spettatore è propenso a tornare sullo stesso network per replicare le stesse emozioni. Così, per esempio, CBS è diventato il network dei procedurali e ABC quello delle donne mentre HBO ha cominciato a esplorare le complesse dinamiche dell'etica maschile e femminile, riuscendo a codificare un format all'interno del quale ormai può farlo automaticamente. L'offerta di TV interpassiva non bastava più e tutti hanno cominciato a offrire una TV interpassiva dedicata o una TV più complessa (non-interpassiva) che però si è a sua volta brandizzata molto presto (da The Wire e The Sopranos al più banale Boardwalk Empire la strada non è poi così lunga).

Via ustelevision.

Paradossalmente, la cable television è un tentativo di replicare in piccolo la televisione classica, una scialuppa di salvataggio che imita il modello della TV di Stato con il canone: la HBO in fondo non è altro che una BBC per americani. All'inizio si è distinta per non essere TV, ovvero TV interpassiva, ma ora è più o meno come tutti gli altri network perché lo spettatore si aspetta un certo tipo di prodotto di fronte al quale non è costretto a fare eccessivi sforzi. Ancora paradossalmente, alcuni network hanno cominciato a produrre show non interpassivi (soprattutto comedy come per esempio The Office — che pur proveniva dalla BBC — e i suoi epigoni e, naturalmente, qualcosa come Lost). Paradossalmente? Non proprio, in fondo quasi tutti i network (broadcast e cable) sono controllati da sei corporazioni sorelle: General Electric, Walt Disney, News Corp. (cioè FOX, FX, ecc.), Time Warner, Viacom e CBS, e praticamente ognuna di queste corporazioni possiede almeno un broadcast e un cable (o pay tv, ecc.). Il che significa che la distinzione fra broadcast e cable network è più aleatoria di quel che sembra.

In quest'ottica, le televisioni a pagamento non sono altro che trappole per il migrante popolo televisivo, tagliole anestetizzate che imprigionano lo spettatore in fuga e lo costringono a pagare anche per ciò che non vede, cioè il 90% di quello per cui ha pagato. Sono il primo esperimento di biopolitica televisiva, parchi naturali più che zoo, pur sempre recintati e tenuti sotto strette politiche demografiche dagli stessi che gestiscono gli zoo.

C'è dunque una sinergia possente fra broadcast e cable network che si manifesta proprio negli slittamenti di genere narrativo dall'uno all'altro, nel fatto che nei broadcast ci sono anche  "cable show" e nei cable ci sono anche "broadcast show". E' TV liquida che fluisce attraverso vasi comunicanti, democrazia indiretta travestita da democrazia diretta, delega (nel caso delle televisioni a pagamento, però, invece di anticipare il voto anticipiamo i nostri soldi).

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Nel momento in cui la mobilità diventa anche inter-mediale, cioè oggi, voglio dire ieri, la televisione si sveglia ed è già troppo tardi.

I primi segni della fine sono stati i reality show. Se la televisione classica esportava principalmente format televisivi legati al gioco e all'intrattenimento, cioè strutture flessibili che dovevano essere poi adeguate alla cultura di ogni singolo paese (o nazione), quella contemporanea ha cominciato a esportare format culturali, abitudini, comportamenti, esperimenti ripetibili come l'olandese Grande Fratello.

Baywatch è stato il più grande fenomeno di televisione globale prima di Internet.


E' vero che gli Stati Uniti, il Brasile e la Germania hanno per anni esportato fiction, e è vero che la fiction ha contribuito alla diffusione ideologica di determinati stili, ma è sempre stata innestata su rigide strutture televisive nazionali, con risultati imprevedibili e persino surreali come il caso di Baywatch, che negli Stati Uniti non guardava nessuno e poi è diventato il più grande successo globale della storia della TV. C'è una grande differenza fra l'accesso differito e selettivo di un prodotto di importazione e quello immediato possibile grazie all'annullamento (e in certi casi aggiramento) delle "pratiche doganali" (chi ha voglia di scrivere un saggio sul genio visionario di David Hasselhoff?).

I reality invece, lo dico brevemente perché non è di questo che stiamo trattando, hanno la caratteristica di lasciar emergere l'identità cardinale dell'occidente, sono esperimenti simili a quello di Zimbardo che mostrano l'inevitabilità del ruolo e, di conseguenza, l'affinità fra il recluso francese e quello spagnolo, fra l'ubriaco americano e quello italiano, tra il naufrago canadese e quello inglese. I reality sono intrattenimento sovra-nazionale, il primo nel quale diverse culture danno esiti uber-culturali, si manifestano come quella stessa cultura che proprio la televisione, più di qualsiasi altro medium, ha contribuito a diffondere (o la ragione è questa?).

Allo stesso tempo, i reality sono ancora format, cioè una merce che può essere sì venduta ovunque (e "funziona" ovunque) ma alle condizioni del grossista che l'ha importata. Nel momento in cui è possibile accedere al format originario avrà, o meglio, ha ancora senso l'esportazione?

E' straordinario come sia cambiato tutto.

--> 4. La TV del futuro

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