lunedì 14 aprile 2014

MAD MEN: TIME ZONES

La mia recensione della premiere della settima stagione di Mad Men pubblicata in precedenza su Serialmente.

Nel pilot la cinepresa scivola dolcemente in un bar fumoso, costeggia il locale affollato e, muovendosi di traverso, bordeggia verso sinistra chiudendo sulla figura di Don Draper di spalle, come dire: la faccia di un uomo in fuga è la sua nuca. In Time Zones, la premiere di questa stagione finale dello show, la cinepresa scivola indietro allontanandosi dal primissimo piano di Freddy Rumsen che, inizialmente, sembra rivolgersi a noi: in realtà, Freddy sta presentando un’idea a Peggy, e sapremo solo alla fine dell’episodio che sta parlando per Don. La faccia dell’uomo che per una volta ha scelto di non fuggire non è la sua ma quella di un altro. Push in, pull out. Mad Men che respira.

Entrambe le scene ci dicono “chi è Don Draper” nel modo in cui ce lo direbbe Don Draper in persona, deflettendo la domanda, dicendoci che l’unico modo che Dick Whitman ha trovato per essere se stesso è essere qualcun altro: prima Don e adesso, almeno temporaneamente, Freddy Rumsen, ex alcolista e pubblicitario riformato. Ma chi è Freddy Rumsen?

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Nella quinta stagione, in Far Away Places, Roger sotto LSD vede nello specchio l’immagine impossibile della sua faccia in parte giovane e in parte vecchia. E' la modalità di Roger specchiarsi nella gloria del passato, vivere come se non avesse mai avuto cent’anni. La modalità di Don è specchiarsi nel futuro, immaginare il prossimo Don, la prossima incarnazione dell’incarnazione di Dick Whitman: nello specchio Don vede lo straniero che verrà, l’ennesima reinvenzione.

Dunque, chi è Freddy Rumsen? È un avatara, un travestimento, è dove Don si vede fra qualche anno? È un esperimento temporale o semplicemente un modo per continuare a fare l’unica cosa che Don sa fare? E che, senza dubbio, sa fare molto bene?

Infatti, il pitch di Freddy, il quale ironicamente non ha né la bellezza di Christian né l’eloquenza di Cyrano ma è lì a fare da frontman per Don che invece le possiede entrambe, è perfetto, spettacolare: Siete pronti? Perché, statemi a sentire, questo è l’inizio di qualcosa (ma certo, è l’inizio della fine di Mad Men). A me gli occhi, dunque, e lo dico perché se osservaste più attentamente vedreste che non sono quello che sono, che non è Freddy Rumsen che parla ma Don Draper. Okay, mettiamola così, guarda, provo a farti vedere il trucco: diciamo che hai un incontro di lavoro, ti presenti con la cravatta sporca e una fogliolina d’insalata fra i denti, e soprattutto non hai niente da dire. Diciamo che sei me, Freddy Rumsen, specialmente quando la mia vita era un casino. L’incontro è noioso ma tu indossi un orologio di marca Don Draper (una macchina del tempo?) e questo, te ne accorgerai fra poco, ti rende interessante. E ora facciamolo un piccolo viaggio nel tempo: bianco e nero, sala riunioni, rumore leggero del traffico in sottofondo (praticamente la vecchia S&C); tu sei lì con il tuo orologio di marca Don Draper e spuntano tre teste, due canute (Roger e Bert?) e quella di un tizio moderno tipo Steve McQueen (sarebbe Don, ma il trucco è questo: tu credi che sia Don perché in effetti potrebbe esserlo, invece Don è lì, ce l'hai proprio sotto agli occhi, è l’orologio al polso di Freddy Rumsen). Non a caso Steve McQueen nota proprio il tuo orologio e chiede: è svizzero? Sarebbe qualcosa che potrebbe dire anche Don ma, anche qui, no. Adesso colore, è passata un'era ma si parla ancora del Don Draper che indossi: è preciso, è accurato, è il massimo del design e della tecnologia mentale. Non è un orologio, è un gioco di prestigio (considerando che “timepiece” è un’altra parola per orologio, il gioco di parole nell’originale – “it’s not a timepiece, it’s a conversation piece” – è pressoché intraducibile ma abbastanza chiaro).

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Oh, e Peggy. Naturalmente Peggy non capisce; non perché non ci sappia fare, ma perché Don è il suo punto debole e probabilmente ha nostalgia di The Suitcase, cioè di quando un “pezzo di conversazione” poteva essere anche una semplice valigia Samsonite. Infatti, emenda il payoff perfetto di “Freddy Draper” in linea con questo sentimento: è ora di farsi una bella chiacchierata. Ma no, non puoi cambiare la perfezione, e l’eroe dello spot è l’orologio non Steve McQueen: Steve McQueen sarà un fenomeno al volante della sua Mustang GT del ’68 ma anche per lui sarebbe un po’ troppo dominare il tempo, farlo scorrere avanti e indietro e avanti, dal colore al bianco e nero al colore. Peggy se ne accorgerà solo alla fine, dopo aver fatto a pugni con il suo personale “draperismo” e con lo scazzo di Lou Avery.

Non è tutto. Se Freddy Rumsen è un doppio di Don, Freddy Rumsen è anche la persona che Peggy ha sostituito alla Sterling & Cooper (un’immagine di Peggy nello specchio, Freddy/Peggy), e il suo mentore prima di Don. È anche lo stesso che si è pisciato addosso prima di un meeting, indovina, con Samsonite. È un ex alcolista e adesso anche il pubblicitario che avrebbe potuto essere se fosse stato, oltre che un ex alcolista, un Don Draper; insomma, Freddy Rumsen non è un’ombra nel cono di luce di Don ma una delle tante immagini nel labirinto di specchi che è Mad Men...

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Intanto, in una dimensione chiamata diniego, Roger Sterling vive come un hippie in una camera d’albergo di lusso, e cosa posso aggiungere alle immagini? Ti perdono, no io ti perdono, no non hai capito papà, ti perdono io, no sono io, o figlia, a perdonarti, e così via. Chi si è trovato lì può capire, e diciamolo, nessuno perdona in quella scena, e il potere logora chi non ha i soldi o chi non ha tempo. Sono gli uomini di Madison Avenue, per usare le parole del personaggio interpretato da Neve Campbell, che ci fanno credere diversamente, che ci fanno pensare che il tempo sia sotto controllo. Di norma la vita è un fuso orario sfasato.

Pensate a Peggy e Joan che sono già tipo nel 2012, che comunque è un anno in cui le donne vengono ancora pagate meno e lavorano di più, ma almeno non devono relazionarsi, o forse sì, al ragazzino odioso e saccente di Cougar Town. Pensate a Ken che tratta Joan come una segretaria... O a Don che beve ancora come negli anni '50.

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Borges diceva che gli specchi sono terribili perché moltiplicano all’infinito l’immagine dell’uomo ma la cosa più terribile è che lo specchio è solo nell’occhio dell’osservatore, e Don vede tutto attraverso lo specchio dell’alcolismo. In maniera un po’ didascalica la cosa è chiara quando incontra Megan dopo essersi rasato nel bagno dell’areoplano (Steve McQueen-style) e il mondo rallenta per esaltare la figaggine di quel momento che, però, è seguito da un improvviso ribaltamento dei rapporti di forza (Megan, è lei Steve McQueen, anche se solo per un attimo), e dalla malinconia di un matrimonio in rovina che non potrà mai essere salvato da nessun televisore a colori.

In maniera meno didascalica, persino poetica, l’alcolismo di Don è ancora più evidente nel viaggio di ritorno dalla California, durante il quale è difficile distinguere il sogno dalla realtà, la confabulazione dalla sobrietà, la dissociazione dalla compattezza dell’identità. Il personaggio di Neve Campbell, che Don incontra in aereo, potrebbe essere la futura moglie di Don o la futura Megan o semplicemente potrebbe non essere, essere soltanto un residuo onirico, polvere di sogno. Il suo racconto della morte del marito (è morto per sete, cioè era un alcolista) non ha senso, o ha senso come un macabro spot per la vita di Don, o per una vita in cui la sete è così prepotente che può essere placata solo da litri di Old Fashioned. In ogni caso, se quello di Don è un sogno a occhi aperti è impossibile interpretarlo, e se è un’esperienza reale sarebbe meglio fosse un sogno. In quel momento, infatti, quando Neve Campbell gli racconta la storia del marito, Don è al culmine della vulnerabilità perché si trova di fronte a uno specchio che gli restituisce l’immagine di un futuro che non può dominare, di un destino che non può ingannare, come sempre fa, con uno dei suoi confidence trick, con una delle sue reinvenzioni.

Non è una sorpresa che, alla fine, mentre un Roger esausto fissa il soffitto e Peggy si inginocchia in lacrime nel suo appartamento, Don attraversi lo spiraglio inchiudibile della sua finestra. Non è una via di fuga né un’istigazione al suicidio (che mai accadrà) né una sorta di “porta aperta” ma il centro di quella illusione ottica che si chiama identità: ecco, l’identità è uno spiraglio inchiudibile, e tutto vi traspira.

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